Sezioni Unite cassazione "Favor revisionis"
le sezioni unite affermano il principio del 'favor revisionis' e la possibilita' di accesso agli atti, in sede di legittimita', per verificare i presupposti di ammissibilita' del giudizio di revisione.
LE SEZIONI UNITE AFFERMANO IL PRINCIPIO DEL "FAVOR REVISIONIS" E LA POSSIBILITA' DI ACCESSO AGLI ATTI, IN SEDE DI LEGITTIMITA', PER VERIFICARE I PRESUPPOSTI DI AMMISSIBILITA' DEL GIUDIZIO DI REVISIONE.
Sezioni Unite sent. n. 642/2002 (26 settembre 2001 - 9 gennaio 2002)
Pres. Vessia - rel. de Roberto - ric. P.G. e p.c. in proc. Pisano
- Fine primario ed ineludibile del processo penale, anche di revisione, è quello della ricerca della verità, attraverso un processo equo, pervenendo all'accertamento dell'effettiva verità storica dei fatti, rimovendo il contrasto tra "verità storica" e "verità processuale".
- Una richiesta di revisione può essere dichiarata inammissibile, per infondatezza, solo nel caso in cui detta infondatezza sia manifesta, rilevabile ictu oculi, percepibile ad un semplice, primo e sommario esame delibativo, mancando anche il fumus della sua apprezzabilità.
- Deve considerarsi prova nuova anche quella che, pur esistendo al tempo del giudizio, non fu portata a conoscenza del giudice, prescindendosi dall'imputabilità al mancato esercizio dei poteri ufficiosi del giudice della cognizione, ovvero ad un'eventuale negligenza della difesa del condannato.
- Ai fini di ammissibilità del giudizio di revisione il condannato deve offrire dei nuovi "elementi" di prova e non delle nuove "prove", potendo prospettare, ai medesimi fini, dei nuovi elementi di prova in relazione ad un "tema probatorio" (nella specie "dimostrazione dell'alibi") già affrontato dal giudice della cognizione;
- Non è inibito al giudice della revisione operare una diversa ricostruzione delle fasi di un omicidio, fondata su elementi di prova presenti in atti, ma non valutati nel precedente giudizio;
- In sede di ricorso per Cassazione avverso una sentenza di revisione al giudice di legittimità è consentito l'accesso agli atti per verificare se, relativamente al positivo giudizio di ammissibilità della revisione, la Corte d'Appello si sia attenuta ai criteri indicati dagli articoli 630, 631 e 634 c.p.p., non effettuandosi -in tal caso- un giudizio di merito, bensì una verifica dei presupposti di ammissibilità del giudizio di revisione.
1. Introduzione - 2. Concetto di "prova nuova" ai fini della revisione - 3. La richiesta di revisione: differenza tra "prove nuove" ed "elementi di prova" nuovi - 4. L'ammissibilità della revisione - 5. Differenza fra "tema probatorio" e "mezzo di prova" - 6. Il "favor revisionis" - 7. L'accesso agli atti nel giudizio di legittimità - 8. Conclusioni.
1. Introduzione.
La sentenza depositata il 9 gennaio 2002 delle Sezioni Unite penali, rigettando i ricorsi proposti dal P.G. e dalle parti civili, ha confermato quella della Corte d'Appello di Perugia, che aveva revocato la condanna all'ergastolo di Massimo Pisano, accusato di uxoricidio.
La decisione, di particolare interesse per le tematiche giuridiche di attualità, ha affermato il principio del "favor revisionis", ha esteso il concetto di "prova nuova" ed il confine dell'ammissibilità della revisione, nonchè rimarcato la differenza tra "tema probatorio" ed "elementi di prova", sottolineando i più ampi poteri riconosciuti al giudice della revisione dal nuovo c.p.p. ed offrendo interessanti spunti di riflessione sul limite sindacato di legittimità.
LA VICENDA: Massimo Pisano la mattina del 4 agosto 1993 esce di casa intorno alle 6,45, giunge in ufficio intorno alle 7,15; alle 10, 30 circa vi si allontana perchè incaricato di acquistare presso il vicino negozio di ferramenta le chiavi della palestra dell'Istituto; approfitta dell'incarico affidatogli per recarsi all'ufficio del catasto, facendo rientro in ufficio intorno alle 11,30 ed uscendone alle ore 13,45.
La moglie di Massimo Pisano, dopo avere telefonato in ufficio per ottenere un giorno di permesso, chiedendo alle sue colleghe di non comunicare la sua assemza al marito, si reca in Riano (RM) a casa di Silvana Agresta, che sospettava essere l'amante del marito, la affronta e -dopo una violenta colluttazione- viene percossa al capo ed uccisa a coltellate. Alcuni vicini di casa odono le sue grida intorno alle ore 12,00; l'orario della morte, anche sulla base della perizia autoptica, è stato -quindi- individuato nelle ore 12,15 circa.
La Corte d'Assise di Roma, con sentenza del 29.11.1994, confermata dalla Corte d'Assise d'Appello e divenuta definitiva in data 18.4.1996 a seguito del rigetto del ricorso per Cassazione, condannò Massimo Pisano, ritenendolo responsabile di concorso materiale con Silvana Agresta nell'omicidio della moglie e di occultamento del cadavere.
In data 30.7.1999 il difensore di Massimo Pisano ha presentato richiesta di revisione.
La Corte d'Appello di Perugia, dopo avere dichiarato l'ammissibilità della richiesta di revisione, all'esito del dibattimento, svoltosi in sette udienze, nel corso delle quali ha esaminato 17 testi, ha accolto la richiesta di revisione ed escluso che Massimo Pisano partecipò all'esecuzione del delitto, sulla scorta dell'alibi positivamente dimostrato nel giudizio di revisione, della esatta ricostruzione delle fasi del delitto, nonchè dell'accertata impossibilità, per l'imputato, di essere presente sulla scena del delitto.
Il P.G. presso la Corte d'Appello di Perugia, e le parti civili hanno proposto ricorso per cassazione che, per dirimere alcuni contrasti di giurisprudenza e risolvere rilevanti questioni di diritto, il Primo Presidente ha assegnato alle SS.UU.
Le Sezioni Unite penali della Corte Suprema di Cassazione all'udienza del 26.9.2001 hanno rigettato i ricorsi, confermando la statuizione assolutoria della sentenza di revisione.
LE QUESTIONI DI DIRITTO devolute all'esame delle Sezioni Unite con il ricorso PISANO (reperibili nell'ARCHIVIO NOVITA' C.E.D. della Corte di Cassazione) sono state:
1) se ai fini dell'ammissibilità della revisione, possa considerarsi "prova nuova" quella già esistente agli atti ma non valutata dal giudice per mancato esercizio dei poteri officiosi o per mancata deduzione della parte;
2) se, agli stessi fini, il condannato debba offrire nuovi "elementi" di prova o nuove "prove";
3) se, agli stessi fini, sia consentito al condannato prospettare nuovi elementi di prova in relazione ad un "tema probatorio" (nella specie "dimostrazione dell'alibi") già affrontato dal giudice della cognizione;
4) quali siano i limiti del sindacato di legittimità sui vizi della motivazione.
2. Concetto di "prova nuova" ai fini della revisione.
Le Sezioni Unite hanno definitivamente risolto il contrasto di giurisprudenza sul concetto di "prova nuova" ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione.
Infatti. secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, la cd. "prova nuova" non poteva consistere in un elemento già esistente negli atti processuali, ancorchè non conosciuto o valutato dal Giudice per mancata deduzione o mancato uso dei poteri d'ufficio (Cass. Pen., SS.UU., CC. 26.2.1988, dep. 2.6.1988, ric. Macinanti, Ced. 178518, edita in Giurisprudenza Italiana, 1989, fasc. 7, parte II, pag. 264; Cass. Pen., 5^ sez., n. 2134, CC. 6.5.1999, imp. Percoco, Ced 213793; in senso conf.: Cass. Pen., 2^ sez., n. 7111, CC. 2.12.1998, imp. Lucidi, Ced. 212267; Cass. Pen., 3^ sez., n. 2691, CC. 4.7.1997, imp. Rossi, Ced 209094; Cass. Pen., 1^ sez., n. 649, CC. 30.1.1997, imp. Morabito, Ced. 207042; Cass. Pen., 1^ sez., n. 286, CC. 21.5.1995, imp. Ciancalilla, Ced. 201092; Cass. Pen., 1^ sez., n. 294, CC. 23.1.1995, imp. Scibetta, Ced. 200783; Cass. Pen., 3^ sez., n. 595, CC. 23.2.1994, ric. Valsecchi, Ced. 197400 ; Cass. Pen., SS.UU., n. 6019, ud. 11.5.1993, imp. Ligresti, Ced. 193421) mentre, secondo altra parte della giurisprudenza di legittimità, si riteneva che "in tema di revisione della condanna, il concetto di "prova nuova" va esteso anche alle prove preesistenti e non valutate, ancorchè già acquisite agli atti del giudizio, prescindendosi anche da eventuale negligenza delle parti" (Cass. Pen., 6^ sez., n. 1155, CC. 1.4.1999, Pres. Tranfo, rel. Conti, imp. Cavazza, P.M. conf.; in senso conf: Cass. Pen., 5^ sez., n. 2473, CC. 24.5.1999, Pres. Ietti, rel. Cicchetti, imp. Puccio, P.M. conf.; Cass. Pen., 1^ sez., n. 4184, CC. 10.7.1998, Pres. Carlucci, rel. Santacroce, imp. Campolo, P.M. conf.; Cass. pen., 3^ sez., n.2772, CC. 29.10.1998, Pres. Pioletti, rel. Teresi, imp. Vara, P.M. diff.; Cass. Pen., 5^ sez., n. 2624, CC. 28.5.1996, Pres. Marvulli, rel. Cicchetti, imp. Di Fabio, P.M. conf.; Cass. Pen., 4^ sez., n. 39, CC. 12.1.1996, Pres. Scorzelli, rel. Merone, imp. Arcudi, P.M. conf.; Cass. Pen., 3^ sez., n. 595, CC. 23.2.1994, Pres. Tridico, rel. Di Cola, imp. Valsecchi, P.M. conf.; Cass. Pen., 1^ sez., n. 830, CC. 27.2.1993, Pres. Buogo, rel. Gemelli, imp. Curreli, P.M. conf.; Cass. Pen., 1^ sez., n. 211, CC. 20.1.1992, Pres. Sibilia, rel. Feliciangeli, imp. Castaldo, P.M. diff.).
Nel risolvere il contrasto di giurisprudenza, il massimo organo giudicante ha ribaltato i due precedenti orientamenti delle medesime Sezioni Unite: Cass. Pen., SS.UU., CC. 26.2.1988, dep. 2.6.1988, ric. Macinanti, Ced. 178518, edita in Giurisprudenza Italiana, 1989, fasc. 7, parte II, pag. 264 e Cass. Pen., SS.UU., n. 6019, ud. 11.5.1993, imp. Ligresti, Ced. 193421, il primo espresso sotto l'imperio del previgente codice di rito ed il secondo nella vigenza del nuovo c.p.p., affermando, viceversa, che "ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione, prova nuova è, oltre la prova sopravvenuta, la prova scoperta, la prova non acquisita e la prova acquisita ma non valutata, come risulta dalla disposizione dell'art. 630 lett. c) c.p.p. che àncora la novità della prova alla sua avvenuta valutazione nel giudizio di cognizione".
Con la conseguenza che vanno considerate "prove nuove" anche quelle che, pur presenti negli atti, non furono conosciute o apprezzate dal giudice di cognizione, per la semplice ragione che tali prove, lungi dal consentire una ri-valutazione delle medesime acquisizioni probatorie del giudizio di cognizione (inammissibile), verranno -in ogni caso- esaminate per la prima volta dal giudice della revisione.
Nel ricostruire analiticamente le contrapposte soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità, sotto l'imperio del previgente c.p.p. e nell'attuale ordinamento, le SS.UU. hanno affermato che la soluzione giuridica prescelta scaturisce (anche) dalla "protezione" che l'art. 24, quarto comma della Costituzione offre all'istituto della revisione.
Inoltre, come osservato dalle SS.UU., eventuali prove non tempestivamente dedotte, nell'ambito del giudizio di cognizione, per negligenza del condannato o del suo difensore, ben potranno essere poste a fondamento di una richiesta di revisione, dal momento che il colposo (o addirittura doloso) comportamento difensivo del condannato nel corso del giudizio di cognizione determinerà soltanto la preclusione, a norma del primo comma dell'articolo 643 c.p.p., dell'eventuale futuro diritto alla riparazione dell'errore giudiziario.
Un ulteriore conforto a tale tesi giuridica viene offerto dalla speciale introduzione della "revisione in peius" della sentenza di condanna dei cd. "collaboratori di giustizia", di cui all'articolo 12 della Legge 13.2.2001, n. 45 (con il quale è stato introdotto l'articolo 16-septies del D.L. 15.1.1991, n. 8, conv. in legge, con modificazioni, dalla L. 15.3.1991, n. 32), che ha previsto una speciale ipotesi di "revisione in peius" della sentenza di condanna dei cd. "collaboratori di giustizia", che può essere richiesta dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello nel cui distretto la sentenza è stata pronunciata, quando le circostanze attenuanti che il codice penale o le disposizioni speciali prevedono in materia di collaborazione, sono state applicate per effetto di dichiarazioni false o reticenti, ovvero quando colui che ha beneficiato delle circostanze attenuanti predette commette, entro dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza, un delitto per il quale l'arresto in flagranza è obbligatorio.
3. La richiesta di revisione: differenza tra "prove nuove" e nuovi "elementi di prova".
Nei motivi di ricorso per cassazione le parti civili avevano dedotto la violazione degli artt. 629, 630 c. 1 lett. c), 631 c.p.p., per avere la Corte d'Appello di Perugia ritenuto che, ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione, il condannato debba limitarsi a prospettare dei nuovi "elementi di prova" e non delle nuove "prove".
Le Sezioni Unite hanno ritenuto l'eccezione destituita di fondamento giuridico, proprio perchè l'articolo 631 c.p.p., a proposito dei limiti posti dal vigente codice di rito all'istituto della revisione, parla espressamente di nuovi "elementi" di prova astrattamente idonei, "se accertati, a dimostrare che il condannato deve essere prosciolto" con una delle formule di rito.
Dalla mera lettura del dettato normativo emerge, quindi, che il legislatore del nuovo codice di procedura penale non ha preteso, ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione, che il condannato prospetti delle "nuove prove", bensì soltanto dei "nuovi elementi di prova", sia perchè in tal senso depone il tenore letterale dell'articolo 631 c.p.p., sia perchè è stata richiesta, nel medesimo articolo di legge, ai fini della delibazione circa l'ammissibilità della revisione, un'astratta prognosi di "dimostrazione" dei nuovi "elementi di prova", se accertati nel corso del dibattimento, a pervenire al proscioglimento del condannato.
Orbene, posto che -a norma dell'articolo 38 delle disposizioni di attuazione del nuovo c.p.p.- è consentito al difensore di acquisire esclusivamente degli "elementi di prova" (e non certo delle "prove" in senso tecnico-giuridico), accedendo alla tesi giuridica prospettata dai ricorrenti -respinta dalla sentenza in rassegna- l'istituto della revisione ex articolo 630 lettera c) c.p.p. sarebbe stato di fatto espunto dall'ordinamento processuale vigente.
Anzi, proprio la necessità, imposta dall'articolo 631 c.p.p., di un successivo "accertamento" dibattimentale fornisce la prova inconfutabile che l'articolo 630, 1° comma lettera c) c.p.p. richieda, ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione, che il condannato debba limitarsi a prospettare "nuovi elementi di prova" e non delle "nuove prove" che, qualora dovessero essere tali, non avrebbero ovviamente nemmeno avuto alcuna necessità di dovere essere poi "accertate" nel corso del giudizio di revisione.
Ad ulteriore conforto della tesi giuridica dianzi evidenziata, va ricordato che il secondo comma dell'articolo 327 bis c.p.p. (introdotto dall'art. 7 L. 7.12.2000, n. 397) prevede che il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare "elementi di prova" a favore del proprio assistito, "anche al fine di promuovere il giudizio di revisione".
4. L'ammissibilità della revisione.
Le SS.UU. hanno ribadito il principio di diritto, che "una richiesta di revisione può essere dichiarata inammissibile, per infondatezza, solo nel caso in cui detta infondatezza sia manifesta, rilevabile ictu oculi, percepibile ad un semplice, primo e sommario esame delibativo, mancando anche il fumus della sua apprezzabilità".
Nei motivi di ricorso il P.G. aveva dedotto la nullità della sentenza, perchè la motivazione di rigetto della richiesta di inammissibilità della revisione era stata inserita nel testo della sentenza e non già nell'ordinanza dibattimentale ammissiva delle prove nuove.
In altri termini, dopo che la Corte d'Appello, con ordinanza emessa de plano, aveva ritenuto ammissibile la richiesta di revisione ed il Presidente aveva emesso il relativo decreto di citazione per il giudizio di revisione, nel corso della prima udienza dibattimentale, nella fase ammissiva delle prove, P.G. e parti civili avevano riproposto il tema dell'inammissibilità della revisione.
A tale proposito, la Corte d'Appello, all'esito delle relative richieste, aveva emesso l'ordinanza ammissiva delle prove, enunciando successivamente, nella motivazione della sentenza, le ragioni giuridiche per le quali la richiesta di revisione era stata ritenuta ammissibile, ritenendo che non dovesse essere ribadita, nel corso del processo, la fondatezza giuridica di una decisione precedentemente adottata, ogni qualvolta essa risulti "sgradita" ad una parte processuale che ne richieda una rivisitazione, ben potendo esserne approfondito e definitivamente rielaborato l'apparato giustificativo con la sentenza conclusiva del giudizio di revisione.
In applicazione del principio della tassatività delle nullità, espressamente ribadito dal nuovo codice di rito, la Corte Suprema - a Sezioni Unite - aveva già statuito che "il vizio di motivazione di un'ordinanza dibattimentale diversa da quella dichiarativa della contumacia non può mai tradursi in una ragione di nullità del giudizio, specie quando il Giudice abbia ribadito la decisione dibattimentale con la sentenza conclusiva, rielaborandone l'apparato giustificativo" (Cass. Pen., SS.UU., n. 17, ud. 21.6.2000, dep. 21.9.2000, ric. Primavera ed altri, Ced. 216662, edita in Il Foro Italiano, 2000, fasc. 5, II, pag. 263).
Peraltro, va detto che un'espressa ordinanza di ammissibilità della richiesta di revisione è ultronea, in quanto mera inutile duplicazione di una valutazione già svolta nella fase propria, quella rescindente, che si estrinseca in una camera di consiglio che il legislatore ha voluto "non partecipata", nella quale la Corte d'Appello di Perugia aveva già valutato sia i requisiti dell'osservanza formale, sia della non manifesta infondatezza della richiesta, sulla base dei tassativi presupposti previsti dagli artt. 631 e 634 c.p.p. ed emesso il relativo decreto, secondo il disposto dell'art. 636 n. 1 c.p.p.-
Le Sezioni Unite hanno condiviso il giudizio di ammissibilità espresso dalla Corte d'Appello di Perugia, con riferimento a tutti gli elementi di prova nuovi, ad eccezione di quello concernente la perizia tossicologica, ritenuta non caratterizzata dal requisito della "novità" ma, tuttavia, ininfluente per la preponderanza degli altri elementi di prova idonei a dimostrare l'estraneità di Massimo Pisano al delitto ascrittogli; il tutto effettuando l'accesso agli atti, poichè in tale caso, esso non si è concretizzato, come hanno ritenuto le SS.UU., in un giudizio di merito, bensì in una mera verifica dei presupposti di ammissibilità del giudizio di revisione.
5. Differenza fra "tema probatorio" e "mezzo di prova".
Quanto alla possibilità di prospettare nella richiesta di revisione un alibi, già disatteso nel precedente giudizio di cognizione, le Sezioni Unite hanno rimarcato la differenza esistente tra il "tema probatorio" (nel caso di specie, "dimostrazione dell'alibi": tema che non deve certamente essere "nuovo") ed i "mezzi di prova" (elementi di prova dedotti a sostegno della richiesta di revisione che, viceversa, a pena d'inammissibilità, debbono necessariamente essere "nuovi").
La Corte Suprema di Cassazione, in un caso analogo a quello della sentenza in rassegna, aveva già statuito che la riprospettazione di un alibi già disatteso o ritenuto non dimostrato, non rende affatto inammissibile la revisione, laddove il condannato, a sostegno dell'alibi, abbia prospettato nuovi "elementi di prova", diversi da quelli valutati nel precedente giudizio (Cass. Pen., 5^ sez., n. 515, CC. 26.10.1999, ric. Zuccari, annulla con rinvio Corte Appello Perugia).
Infatti, mentre il "tema probatorio" è, per definizione, quasi sempre identico, è necessario -ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione- che soltanto gli "elementi di prova" (come è avvenuto nel caso di specie) siano nuovi e diversi da quelli già prospettati e valutati nel corso del giudizio di cognizione.
Al riguardo le Sezioni Unite hanno ritenuto irrilevante la circostanza, sulla quale avevano insistito i ricorrenti, che il tema probatorio dell'alibi fosse stato già preso in esame dalle sentenze sia di primo grado sia di secondo grado del giudizio di cognizione, non apparendo esso impeditivo della qualificazione come "prove nuove" delle prove indicate nella richiesta di revisione, concernendo il requisito della novità non il tema di prova (nel caso di specie, la prova d'alibi) ma gli elementi dimostrativi addotti come noviter reperti (alludendo a talune prove testimoniali mai acquisite, perchè non conosciute dalla difesa del Pisano), ovvero noviter producti.
6. Il "favor revisionis".
Le Sezioni Unite, dopo avere ribadito la pacifica giurisprudenza, secondo cui l'istituto della revisione è finalizzato alla correzione di errori di fatto e non di diritto, hanno affermato il principio del "favor revisionis", ricavandolo dal contesto complessivo dell'articolo 630 lettera C) c.p.p., che ha ampliato la portata della revisione processuale, ritenendola ammissibile, diversamente dal previgente codice di rito, anche nel caso in cui la prognosi sia quella di assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove.
Infatti, diversamente dall'articolo 554 n. 3 c.p.p. previgente, il nuovo ordinamento non richiede più -ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione- che le nuove prove debbano rendere "evidente" che il condannato deve essere assolto, ma semplicemente che esse siano (astrattamente) idonee a condurre al proscioglimento con una delle formule indicate dagli artt. 529, 530, 531 c.p.p. e, quindi, anche per insufficienza o contraddittorietà delle prove, oltre che per la presenza di cause estintive, di improseguibilità e/o di impromovibilità dell'azione penale.
Le Sezioni Unite hanno affermato che, una volta superato il vaglio di ammissibilità della richiesta di revisione, per essere stata ritenuta la richiesta stessa non manifestamente infondata, e delibata la prognosi proscioglitiva imposta dal precetto dell'art. 630, lettera c, è consentito al giudice della revisione "rivedere", sia pure alla luce del novum, tutte le sequenze probatorie che avevano condotto il giudice della cognizione a pronunciare la sentenza di condanna.
In altri termini, una volta dato ingresso al giudizio, delibando l'ammissibilità della richiesta di revisione per l'astratta idoneità dei nuovi elementi di prova a ribaltare il precedente giudizio di colpevolezza, il giudice della revisione dovrà svolgere il suo ragionamento probatorio ponendo su di un piano paritario le prove nuove, le prove esistenti in atti (non valutate dal giudice della cognizione) e le prove già valutate nel giudizio di cognizione, superate dalle nuove acquisizioni, ai fini di un giudizio organico e coordinato, senza riconoscere alcun privilegio di intangibilità alle prove già precedentemente valutate dal giudice della cognizione.
Nel caso in esame, le Sezioni Unite hanno anche affermato che l'esame del punto relativo alla eventuale responsabilità di terzi ed ai provvedimenti "consequenziali" alla revoca della sentenza di condanna (trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica di Roma quale notitia criminis nei confronti della Agresta, di Sabatino Gigante, di Aniello Agresta, di Walter Gigante e di Mario Cantoni) era da considerare indispensabile in relazione alle statuizioni delle due decisioni dei giudici di cognizione che, da un lato, avevano ritenuto che l'azione omicidiaria era stata posta in essere necessariamente da due persone e, dall'altro lato, aveva escluso la riferibilità del delitto a soggetti appartenenti all'entourage dell'Agresta.
Le Sezioni Unite hanno, inoltre, ribadito il consolidato principio di diritto che "fine primario ed ineludibile del processo penale, anche di revisione, è quello della ricerca della verità" (Corte Costituzionale, 26 marzo 1993 n. 111), attraverso un processo equo, pervenendo all'accertamento dell'effettiva verità storica dei fatti, rimovendo il contrasto tra "verità storica" e "verità processuale", anche prescindendo da eventuali decadenze (vds. Cass. pen. SS. UU., sent. n. 17, 6.11.92, Martin, in La Giustizia Penale, 1993, fasc. 3, III, pag. 129).
Nell'alveo di tali solenni principi, è stata chiaramente delineata la funzione del giudice della revisione: non quella di celebrare un quarto grado di giudizio, mediante una rilettura degli atti, bensì quello di acquisire le "prove nuove" e, all'esito, di operare un vaglio complessivo di tutto il materiale probatorio in atti, proprio per rimuovere l'errore giudiziario (in fatto) compiuto nel precedente giudizio.
Nel caso in questione, la Corte d'Appello di Perugia ha documentato l'esistenza di otto indizi falsi, in punto di fatto, che avevano erroneamente indotto i giudici della cognizione a condannare all'ergastolo l'imputato, peraltro pacificamente presente dalle ore 11,30 fino alle ore 13,45 in una località sita a circa 30 km dal luogo del delitto, consumato alle ore 12,15 circa dello stesso giorno.
In aderenza a questi principi, le Sezioni Unite hanno ritenuto legittima e plausibile la diversa ricostruzione delle fasi dell'omicidio operata dalla Corte d'Appello, per essere state prese in esame prove del tutto nuove, valutate congiuntamente alle prove esistenti in atti, ma non valutate nel giudizio di cognizione.
7. L'accesso agli atti nel giudizio di legittimità.
Molto interessante è, infine, la soluzione prescelta dalle Sezioni Unite, che hanno ritenuto consentito l'accesso agli atti, da parte del Giudice di legittimità, per verificare se, relativamente al positivo giudizio di ammissibilità della revisione, la Corte d'Appello di Perugia si sia attenuta ai criteri indicati dagli articoli 630, 631 e 634 c.p.p..
Le Sezioni Unite hanno affermato che, mediante l'accesso agli atti, non viene effettuato un giudizio di merito, ma viene operata esclusivamente una verifica dei presupposti di ammissibilità del giudizio di revisione.
Le Sezioni Unite hanno poi completato l'esame della sentenza di revisione mediante la sua comparazione con le sentenze emesse dai giudici di cognizione, al fine di verificare il rispetto del canone imposto dal terzo comma dell'articolo 637 c.p.p., secondo cui "il giudice non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio".
A tale proposito, le Sezioni Unite hanno affermato che "una volta ritenuto legittimo il passaggio alla fase del merito, la valutazione della prova da parte del giudice della revisione non subisce limitazioni di sorta, sempre sul presupposto che ogni nuova valutazione non potrà mai prescindere, nell'esame di ciascuna sequenza probatoria, dalla prova nuova; fino a ricostruire completamente, secondo gli ordinari criteri inferenziali, il fatto per cui è intervenuta condanna.
Il giudizio di legittimità (negativo) sulle singole censure in fatto, proposte dai ricorrenti P.G. e parti civili è stato effettuato dalle Sezioni Unite secondo i criteri di cui all'articolo 606, integrato da quello di cui all'art. 546, nonchè da quello di cui all'articolo 637, terzo comma c.p.p., secondo cui il giudice della revisione non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.
A tale proposito le SS.UU. hanno affermato che, una volta che la Corte d'Appello, con la sentenza di revisione, ha dato conto di tutte le risultanze probatorie, effettuando un giudizio organico coinvolgente tutti gli elementi di prova in atti (nuovi, presenti in atti e non valutati e presenti in atti erroneamente valutati), il vaglio di legittimità va effettuato secondo gli ordinari criteri che ritengono vada confermata una sentenza contenente una motivazione appagante ed immune da vizi logico-giuridici, non essendo consentito al Giudice di legittimità effettuare una ri-lettura degli atti processuali.
Il contrasto della giurisprudenza di legittimità sul tema della deduzione del cd. "travisamento del fatto" in sede di giudizio di legittimità è palese: una parte di giurisprudenza di legittimità afferma che "nell'ipotesi in cui il travisamento riguardi il fatto processuale, prevale il principio secondo il quale, nell'esame delle questioni relativa a un vizio "in procedendo", la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e può, pertanto, procedere direttamente all'esame dei relativi atti processuali (Nella specie era stato denunciato travisamento del fatto descritto nel verbale d'udienza redatto in forma riassuntiva: il contrasto con la registrazione fonografica è stato risolto a favore delle risultanze di quest'ultima)" (Cass. Pen., 6^ sez., n. 1167, ud. 21.10.1998, dep. 28.1.1999, Pres. D'Asaro, rel. Di Noto, ric. Maraffi, Ced. 213332 ; in senso conf : Cass. Pen., 4^ sez., n. 6552, ud. 6.4.2000, dep. 2.6.2000, Pres. Frangini, rel. Brusco, ric. Attaguille, Ced. 216734; Cass. Pen., 5^ sez., n. 3552, ud. 9.2.1999, dep. 18.3.1999, Pres. Marvulli, rel. Nappi, ric. Andronico, Ced. 213365; Cass. Pen., 3^ sez., n. 11199, ud. 13.11.1997, dep. 4.12.1997, Pres. Minacci, rel. Giammanco, ric. Panati, Ced. 209984; Cass. Pen., 2^ sez., n. 7266, ud. 2.6.1994, dep. 23.6.1994, Pres. Simeone, rel. Nardi, ric. P.M. in proc. Lin ed altri, Ced. 198324; Cass. Pen., 2^ sez., n. 7640, ud. 13.7.1993, dep. 5.8.1993, Pres. Adami, rel. Nardi, ric. Sgrò, Ced. 195253; Cass. Pen., 5^ sez., n. 830, ud. 15.1.1992, dep. 1.2.1993, Pres. Bilardo, rel. Ar-chidiacono, ric. P.M. in proc. Stranieri, Ced. 193481; Cass. Pen., 1^ sez., n. 1351, CC. 19.3.1991, dep. 11.4.1991, Pres. Vitale, rel. Scopelliti, ric. Cinque, Ced. 186905; Cass. Pen., 5^ sez., n. 391, ud. 16.10.1992, dep. 18.1.1993, Pres. Catalano, rel. Malinconico, ric. D'Ammando, Ced. 193168), mentre altra parte di giurisprudenza, in senso diametralmente opposto, sostiene che: "il sindacato del giudice di legittimità sulla struttura razionale della motivazione deve essere limitato alla verifica della esistenza di un logico apparato argomentativo ed il vizio logico della motivazio-ne, anche sotto il profilo del travisamento del fatto, deve essere riscontrato tra le diverse pro-posizioni contenute nella motivazione stessa, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali" (Cass. Pen., 4^ sez., n. 6504, ud. 29.10.1999, dep. 2.6.2000, Pres. Auriemma, rel. Battisti, ric. De Stefani ed altri, Ced. 216690 ; in senso conf. : Cass. Pen., 1^ sez., n. 94, CC. 10.1.2000, dep. 10.2.2000, Pres. Fazzioli, rel. Silvestri, ric. Pixner, Ced. 215336; Cass. Pen., 3^ sez., n. 215, ud. 20.11.1998, dep. 11.1.1999, Pres. Giammanco, rel. Novarese, ric. Forlani, Ced. 212091; Cass. Pen., 2^ sez., n. 3383, ud. 28.2.1997, dep. 10.4.1997, Pres. Simeone, rel. Sirena, ric. Santilli, Ced. 207412; Cass. Pen., 1^ sez., n. 12306, ud. 13.11.1995, dep. 12.12.1995, Pres. Callà, rel. Canzio, ric. Kanoute, Ced. 203126 ; Cass. Pen., 3^ sez., n. 7370, ud. 12.5.1995, dep. 30.6.1995, Pres. Tridico, rel. Morgigni, ric. Stanghi, Ced. 202056; Cass. Pen., 1^ sez., n. 7315, ud. 4.4.1995, dep. 27.6.1995, Pres. De Lillo, rel. Silvestri, ric. Gheza, Ced. 201736; Cass. Pen., 2^ sez., n. 3695, CC. 13.9.1994, dep. 20.9.1994, Pres. Consoli, rel. Morgigni, ric.Fraquelli, Ced. 198818).
Al riguardo, le SS.UU., nell'affrontare il contrasto esistente sul punto, dopo una approfondita escursione nella contrastante giurisprudenza di legittimità, hanno sostanzialmente riproposto la soluzione della sentenza Dessimane del 1997, secondo cui l'accertamento sul cd. "travisamento del fatto" diviene possibile solo allorquando il ricorrente dimostri la "avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase d'impugnazione degli elementi dai quali quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicchè la Corte di legittimità possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi siano stati valutati" (Sez. un., 30 aprile 1997, Dessimone, in Cassazione penale, 1997, p. 3327, n. 1831).
La pur apprezzabile soluzione interpretativa ha finito con l'escludere sia l'ipotesi in cui il giudizio di legittimità sia stato preceduto da un solo grado di merito (es. ricorso avverso sentenze di revisione, ordinanze del cd. "tribunale della libertà", ricorso per saltum, etc...), sia l'ipotesi in cui il preteso "travisamento del fatto" venga posto in essere, per la prima volta, dal giudice dell'impugnazione.
A tale proposito, riteniamo di suggerire una soluzione "mediata", che consenta al Giudice di legittimità non già una ri-lettura degli atti, nè una sovrapposizione delle proprie valutazioni a quelle compiute dal giudice di merito, bensì un mero accesso agli atti, in applicazione della circolare n. 582, 6 febbraio 2001, del Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione Generale degli Affari Penali, richiamata dal Primo Presidente Aggiunto con n. 326/PPA/01 del 26 marzo 2001, nella ipotesi di denunzia, "non generica" o infondata, del vizio del travisamento del fatto, imponendo al ricorrente di specificare la decisiva rilevanza e la pertinenza del singolo atto pretesamente travisato, teso a verificare la corrispondenza tra il presupposto di fatto (posto a base della motivazione) e le esatte risultanze processuali, per evitare che una sentenza "imbellettata", con una motivazione appagante ed immune da vizi logico giuridici, passi indenne al vaglio del Giudice di legittimità, laddove essa sia stata fondata su di un presupposto di fatto falso od erroneo, onde prevenire il rischio di confezionare, con il sigillo del Giudice di legittimità, dei veri e propri errori giudiziari.
8. Conclusioni
Riteniamo che la sentenza delle Sezioni Unite in rassegna abbia apportato delle radicali innovazioni all'istituto della revisione, facendo chiarezza in una tematica, quella dell'errore giudiziario, in cui vi sono state -in passato- delle profonde divaricazioni giurisprudenziali, attestatesi su contrapposti schieramenti: da un lato una concezione del giudicato quasi come una religione, un fondamento mistico, custodito nei confini della legge dal Giudice di legittimità e dall'altro una concezione "laica della Giustizia" -quella prescelta dalle Sezioni Unite- che mira a scongiurare il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale, che ritiene doveroso "sconsacrare" il giudicato, qualora fatti ad esso successivi dimostrino l'ingiustizia di una sentenza di condanna.