Sentenza 02 agosto 2002 n.11573/2002 - Giudizio di equa riparazione - legge Pinto n-89/2001
Cassazione Italiana .(sentenza 02 agosto 2002 n.11573/2002) Giudizio di equa riparazione - legge Pinto n-89/2001- Danno non patrimoniale delle persone giuridiche per l'eccessiva durata del processo avente ad oggetto meri interessi patrimoniali. Insussistenza- (decisione in controtendenza rispetto alla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo)
Cassazione - sezione prima civile - sentenza 10 giugno-2 agosto 2002, n. 11573
Presidente Delli Priscoli - relatore Graziadei - PM Raimondi - (difforme) - ricorrente S.r.l. Samantha Immobiliare - controricorrente Ministero della Giustizia
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
composta dai magistrati
Mario Delli Priscoli presidente
Mario Rosario Morelli consigliere
Mario Adamo consigliere
Giulio Graziadei consigliere relatore
Massimo Bonomo consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto dalla
S.r.l. Samantha Immobiliare, in persona del legale rappresentante Antonio Viola, elettivamente domiciliata in Roma, via degli Scipioni n. 52, presso l'avv. Giovanni Carlo Parente, difesa dall'avv. Silvio Ferrara per procura a margine del ricorso;
ricorrente
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro, per legge difeso dall'Avvocatura generale dello Stato e presso la medesima domiciliato in Roma via dei Portoghesi n. 12;
resistente
per la cassazione del decreto della Corte d'appello di Roma del 5-22 novembre 2001;
sentiti
il cons. Graziadei, che ha svolto la relazione della causa;
l'avv. Ferrara, per la ricorrente, e l'avv. Palatiello, per l'Amministrazione;
il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Guido Raimondi, il quale ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La S.r.l. Samantha immobiliare, con atto iscritto al n. 4398/01 del registro affari diversi della Corte d'appello di Roma, esponeva che nel 1987 aveva citato davanti al Tribunale di Benevento Emilio D'Alessandro ed altri con domanda di accertamento della proprietà di una strada, che la causa, prima di essere cancellata dal ruolo a seguito di accordo transattivo, si era protratta in primo grado per circa tredici anni, e che aveva presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per dedurre il mancato rispetto del termine ragionevole del processo di cui all'art. 6 paragrafo 1 della Convenzione adottata a Roma 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848 ciò premesso dichiarava di voler "riassumere" tale ricorso, avvalendosi della norma transitoria dell'art. 6 della legge 24 marzo 2001 n. 89, e chiedeva a detta Corte d'appello di condannare il Ministero della giustizia al pagamento di un'equa riparazione, ai sensi dell'art. 2 della citata legge n. 89 del 2001.
La Corte d'appello, con decreto depositato il 22 novembre 2001, ha respinto l'istanza.
Pur dando alto che la causa davanti al Tribunale di Benevento aveva avuto una durata irragionevole, tenendosi conto dei numerosi rinvii, la Corte d'appello ha rilevato che mancava la prova del verificarsi, per effetto del1'ingiustificato ritardo di un danno patrimoniale e che non potevano ravvisarsi effetti di natura
psicologica in pregiudizio dell'istante, in relazione alla sua natura di società di capitali, nè lesioni dei beni immateriali di cui la società stessa era titolare (quali l'onore, la reputazione, l'identità).
La Samantha (s.r.l.), con atto notificato il 28 dicembre 2001, ha chiesto la cassazione di detto decreto, formulando un unico motivo articolato in più censure.
Deducendo la violazione dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001, degli artt. 6 e 53 della citata Convenzione, degli artt. 2, 24 e 111 della Costituzione e degli artt. 1223, 1226, 1227, 2056, 2059 e 2043 cod. civ., ed inoltre denunciando vizi di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente assume che il giudice italiano, adito per il ristoro del pregiudizio discendente da irragionevole durata del processo, deve conformarsi all'interpretazione delle norme della Convenzione resa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in ragione del richiamo della Convenzione stessa da parte della legge n. 89 del 2001, addebita alla Corte d'appello di non essersi attenuta alla giurisprudenza di detta Corte europea, e, in particolare, la critica:
- per aver trascurato che la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (a prescindere dall'esito del giudizio) di per sè determina la spettanza di un'equa riparazione, se non altro per il disagio che la parte riceve non vedendo definite entro un congruo tempo le posizioni dibattute in causa, anche in considerazione della rilevanza costituzionale del diritto stesso;
- per aver apoditticamente e comunque erroneamente negato il determinarsi di danno non patrimoniale, dimenticando che questo abbraccia ogni effetto lesivo non valutabile in denaro, e, dunque, è riferibile anche agli enti muniti di personalità giuridica.
L'Amministrazione della giustizia, dopo la scadenza del termine per il controricorso, ha depositato "atto di costituzione", e poi ha partecipato all'odierna discussione.
La Società ha presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via pregiudiziale si rileva che l' impugnazione per cassazione, contro il provvedimento emesso dalla corte d'appello sulla domanda di equa riparazione, deve essere qualificata come ricorso ordinario, e dunque deve essere ammessa per tuffi i motivi contemplati dall'art. 360 cod. proc. civ., non soltanto per la violazione di legge denunciabile con il ricorso straordinario ex art. 111 della Costituzione.
Il principio discende dall'espressa previsione del ricorso per cassazione da parte dell'art. 3 sesto comma della legge n. 89 del 2001, senza delimitazioni circa la censure formulabili, e dalla natura di quel provvedimento di atto giurisdizionale decisorio del giudice ordinario, come tale da includersi fra le "sentenze" rese in grado d'appello od in unico grado, cui si riferisce il citato art. 360 cod. proc. civ. indipendentemente dall'adozione della forma del decreto (coerente con la scelta del rito camerale).
II ricorso è infondato.
A confutazione delle deduzioni della Samantha (s.r.l.) inerenti al valore delle pronunce della Corte di Strasburgo, va osservato che l'art. 41 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali contempla, in caso d'inosservanza dei principi posti dalla Convenzione stessa e dai suoi Protocolli aggiuntivi, e quindi anche in caso di violazione dell'art. 6 paragrafo 1 sulla durata ragionevole del processo, la facoltà della parte lesa di adire detta Corte europea, istituita ai sensi dell'art. 19 per assicurare il rispetto degli impegni assunti dagli Stati contraenti, al fine di ottenere "Un'equa soddisfazione se il diritto interno non permette che in modo incompleto di ripararne le conseguenze".
Tali previsioni evidenziano che l'accordo internazionale, anche per l'ipotesi della durata irragionevole del processo, non introduce norme di diritto interno, cogenti per i giudici nazionali, ma accorda alla parte lesa, a mezzo del proprio organo giurisdizionale, una tutela diretta di tipo suppletivo o sussidiarlo, invocabile al posto di quella mancante o ad integrazione di quella inadeguata offerta dai singoli ordinamenti.
L'ordinamento italiano, con la riformulazione dell'art. 111 della Costituzione ad opera dell'art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, ha recepito in via programmatica il canone della durata ragionevole del processo, demandando alla legge il compito di assicurarla.
L'art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89, occupandosi delle inosservanze di detto canone, con l'obiettivo di apprestare una tutela interna tendenzialmente pari a quella concessa dalla Convenzione, fa esplicito riferimento alle violazioni del citato art. 6 paragrafo I, e per il loro verificarsi stabilisce il diritto ad un'equa riparazione, ove si sia prodotto un danno patrimoniale o non patrimoniale in dipendenza del perdurare della causa oltre il tempo ragionevole, fissando poi le regole che devono presiedere all'identificazione nella concreta vicenda di detto tempo ragionevole (la complessità della controversia, e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti, del giudice e delle altre autorità chiamate a concorrere o contribuire alla sua definizione).
Detto esplicito richiamo della Convenzione, per l'individuazione della violazione influente al fine dell'equa riparazione, non può far trascurare la presenza nella norma in esame di una propria disciplina circa i parametri cui correlare la durata ragionevole del processo, ed anche dell'espressa previsione del danno, patrimoniale o non patrimoniale, quale elemento costitutivo del diritto all'equa riparazione.
Questi rilievi, unitamente all'assenza di disposizioni che conferiscano carattere cogente alle decisioni della Corte europea (diversamente da quanto stabilito dal Trattato istitutivo della CEE per le sentenze della Corte di giustizia), portano a ritenere che il giudice italiano, chiamato ad attribuire un'equa riparazione, non sia vincolato alle pronunce di detta Corte europea, anche se debba tenerne conto quali autorevoli orientamenti giurisprudenziali e linee direttive per la definizione della ragionevole durata del processo, come recepita in base al predetto richiamo della Convenzione da parte della legge n. 89 del 2001, e sia poi tenuto a riscontrare esclusivamente sulla scorta dell'ordinamento interno il verificarsi dell'evento dannoso, quale concorrente requisito della nascita del diritto esercitato in giudizio.
Quanto alle altre deduzioni della ricorrente, va ricordato che la Corte d'appello ha reputato nel caso in esame non ragionevole la durata della causa, ma ha negato l'equa riparazione, per difetto di detto concorrente requisito, ritenendo non provato che l'ingiustificato prolungamento della contesa avesse arrecato un pregiudizio patrimoniale od altro pregiudizio configurabile come danno non patrimoniale.
In mancanza di contestazione avverso l'esclusione del danno patrimoniale il dibattito s'incentra ed esaurisce sulla questione della configurabilità e sussistenza del danno non patrimoniale.
La soluzione data dalla Corte d'appello all'indicata questione decisiva deve essere condivisa, con le precisazioni di cui alle considerazioni che seguono.
La previsione del danno (patrimoniale o non patrimoniale) come elemento generatore del diritto all'equa riparazione non altera la consistenza di quest'ultimo di credito per fatto lecito.
Significativi in tal senso sono i dati testuali, e segnatamente le disposizioni dell'art. 3 settimo comma della legge n. 89 del 2001. ove qualifichino l'equa riparazione come indennità e ne limitano l'erogazione alle risorse disponibili, e, inoltre, la mancanza di riferimenti all'elemento soggettivo proprio dell'illecito aquiliano, l'intrinseca liceità dell'attività giudiziaria anche quando affetta da disfunzioni organizzative o normative che implichino l'eccesso protrarsi della contesa, e la separata valenza dell'eventuale illecito che venga connesso nel processo con dolo o colpa (implicante responsabilità "piena" dell'autore).
Con particolare riguardo al danno non patrimoniale va osservato che lo stesso non trova definizione nella legge n. 89 del 2001, e nemmeno nel codice civile, il quale si limita a contemplarne la risarcibilità nei casi espressamente previsti (art. 2059), e, pertanto, va identificato con stretta aderenza al valore letterale della relativa espressione, comprendendo tutti gli effetti pregiudizievoli che non tocchino il patrimonio e che non siano suscettibili di un apprezzamento di mercato.
Il danno non patrimoniale include dunque tanto il danno morale, consistente in sofferenze, turbamenti, menomazioni dell'equilibrio psichico, quanto il danno che, pur non coinvolgendo la sfera dei sentimenti, degli affetti e della psiche, nè comportando un nocumento riscontrabile in termini monetari, si evidenzi come compromissione di posizioni soggettive, parimenti tutelate, quali sono i diritti immateriali della personalità.
La persona giuridica, per sua natura, non può subire dolori, turbamenti od altre similari alterazioni, ma è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l'assenza della fisicità, e, quindi, dei diritti all'esistenza, all'identità, al norme, all'immagine ed alla reputazione.
Alla luce di tali principi, con cui si dà continuità a consolidato indirizzo di questa Corte (v. sent. 5 dicembre 1992 n. 12951, 3 marzo 2000 n. 2367), si deve affermare che l'irragionevole durata del processo può produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica alla condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente od indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione d'incertezza connessa alla pendenza della causa.
Ciò comporta, rispetto alle controversie con oggetto esclusivamente economico, che il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione die comunque detta durata sia in grado di provocare, può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei menzionati diritti della personalità di cui anch'essa è portatrice.
L'esclusione nella specie di tale presupposto per il determinarsi del danno non patrimoniale nei riguardi di persona giuridica si appalesa corretta.
La società Samantha, parte attrice con domande di consistenza soltanto patrimoniale, non ha allegato e nemmeno indicato alcun riflesso pregiudizievole per i predetti diritti della personalità, limitandosi a far valere il disagio provocato dai tempi della lite, e cioè uno stato dell'animo, si ripete, esclusivamente riferibile alla persona fisica.
L'ipotizzabilità del determinarsi di quel disagio per la persona fisica che amministri l'ente dotato di personalità giuridica non è conferente, dato che 1'eventuale turbamento psichico dell'una, non essendo riconducibile alla rappresentanza organica, non può essere titolo costitutivo di una posizione creditoria dell'altro.
Alla conclusione non è opponibile il richiamo al danno in re ipsa, vale a dire al "danno-evento" in sè risarcibile, in quanto la relativa nozione è riferibile ai diritti fondamentali, contemplati in via direttamente precettiva da norme costituzionali (come ad esempio il diritto alla salute, la cui lesione ~ intrinsecamente e necessariamente foriera di danno), e, quindi. non ~ suscettibile di estensione al diritto all'equa riparazione per irragionevole durata del processo, il quale è assicurato dalla legge ordinaria, non dalla Costituzione (nè in particolare dall'art. 111, nuovo testo, che, come già osservatosi, affida alla legge il compito di dare attuazione al principio della ragionevole durata).
Il ricorso, pertanto, deve essere respinto.
La natura, la complessità e la novità dei quesiti affrontati rendono equa l'integrale compensazione delle spese di questa fase processuale.
P.Q.M.
La Code rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima civile,
il 10 giugno 2002.