Corte Cost. Sent 236-1976 Errore Giudiziario
SENTENZA N. 236
ANNO 1976
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Paolo ROSSI, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Dott. Nicola REALE
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Leopoldo ELIA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 553, 554 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 20 dicembre 1975 dalla Corte di cassazione - sezione I penale - sull'istanza di Micolitti Sergio, iscritta al n. 119 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 58 del 3 marzo 1976.
Visto l'atto di costituzione di Micolitti Sergio;
udito nell'udienza pubblica del 27 ottobre 1976 il Giudice relatore Nicola Reale;
udito l'Avv. Pasquale Petrolillo, per il Micolitti.
Ritenuto in fatto
1. - Caluori Mario, funzionario del Ministero dell'industria e commercio, veniva rinviato a giudizio davanti alla Corte d'assise di Roma onde rispondere del reato di cui agli artt. 81 cpv. c.p. e 261, comma primo, c.p. per avere nella sua qualità, e violando i doveri inerenti alle proprie funzioni, rivelato a Pinto Aldo e ad altre persone non autorizzate a prenderne conoscenza, il contenuto di documenti, che doveva restare segreto nell'interesse politico ed in quello della sicurezza dello Stato italiano, nonchè del reato di corruzione ai sensi dell'articolo 319 cpv. del codice penale.
Con il Caluori erano rinviati a giudizio, oltre al Pinto e a tal Chiarinelli, anche altre persone tra le quali Micolitti Sergio, imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv. c.p. e 261, comma primo, c.p., per avere in concorso con altri, rivelato a terze persone il contenuto di quegli stessi documenti segreti, la cui conoscenza il Pinto aveva ottenuto dal Caluori.
Con sentenza del 22 settembre 1955 la suddetta Corte d'assise affermava la responsabilità dei soli Caluori, Pinto e Chiarinelli, assolvendo invece il Micolitti per insufficienza di prove.
La Corte d'assise di appello di Roma, con sentenza 6 novembre 1956, in riforma della pronuncia di primo grado, modificava, nei confronti di tutti, la imputazione di cui all'art. 261, comma primo, in quella meno grave di cui all'art. 262 c.p. (rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione), affermando la responsabilità del Caluori e del Pinto in ordine a tale reato ed assolvendo da esso, per insufficienza di prove, il Micolitti.
Successivamente la stessa Corte d'assise di appello, giudicando in sede di rinvio dalla Corte di cassazione che, adita dal p.m., aveva annullato la sentenza 6 novembre 1956, con sentenza in data 9 dicembre 1959, manteneva ferma nei confronti del Caluori e del Pinto la qualificazione giuridica del fatto ritenuta in sede di appello e pertanto dichiarava i suddetti responsabili del delitto di cui all'art. 262 del codice penale.
Divenuta definitiva la condanna del Caluori, questi presentava, in data 4 gennaio 1962 istanza per revisione e la Corte di cassazione, con sentenza del 14 dicembre 1962, annullava senza rinvio entrambe le sentenze 6 novembre 1956 e 9 dicembre 1959, assolvendo il Caluori dalle imputazioni ascrittegli "perchè i fatti non sussistono".
Su analoga istanza di revisione proposta dal Pinto, la stessa Corte, con sentenza 3 giugno 1963, assolveva con la medesima formula piena anche quest'ultimo.
Con istanza 20 dicembre 1972 il Micolitti che, come già accennato, era stato assolto dalla imputazione di cui all'articolo 262 c.p. per insufficienza di prove, chiedeva alla Corte di cassazione che fosse, a norma dell'art. 203 c.p.p., dichiarato a suo favore l'effetto estensivo di tali pronunce ed, in subordine, che, ove si ritenesse di ostacolo la propria condizione di "assolto per insufficienza di prove", venisse sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 553 e 554 c.p.p. nella parte in cui essi limitano l'ammissibilità della revisione a favore dei soli condannati.
2. - La Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe - premesso che le istanze di revisione accolte con le predette sentenze, ai sensi dell'art. 554 n. 3 c.p.p., attribuendo valore decisivo all'acquisizione di un documento - ignorato durante le fasi del giudizio - da cui risultava che il Pinto era autorizzato a prendere conoscenza di notizie a torto ritenute segrete e che il Caluori era tenuto a dargliene e premesso ancora che il Micolitti aveva denunziato la coesistenza, nello stesso giudizio, di due decisioni contraddittorie (e, cioè, quella per la quale i fatti ascritti al Caluori erano stati dichiarati inesistenti ai fini dell'assoluzione piena dello stesso, e quella per la quale i medesimi fatti erano stati ritenuti sussistenti, come presupposto dell'assoluzione di esso Micolitti per insufficienza di prove) - considerava innegabile il denunziato contrasto logico.
Osservava, peraltro, che alla rimozione di tale ostacolo era di impedimento, sia pure attraverso l'effetto estensivo del giudizio di revisione già definito e invocato dal Micolitti ai sensi dell'art. 203 c.p.p., la norma di cui all'art. 553 c.p.p., che limita in ogni caso l'ammissibilità del giudizio di revisione alle sentenze di condanna. In conseguenza, dopo aver osservato che tali norme determinano un'irrazionale disparità di trattamento in danno degli assolti per insufficienza di prove, riteneva rilevante e pertanto dichiarava non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Micolitti in relazione all'art. 3 Costituzione.
3. - Ritualmente comunicata, notificata e pubblicata, nei sensi di legge, l'ordinanza de qua, si costituiva in giudizio il Micolitti, rappresentato e difeso dall'avv. Petrolillo, chiedendo, con memoria depositata il 6 febbraio 1976, che le norme denunziate fossero dichiarate costituzionalmente illegittime. Tali conclusioni erano poi ribadite all'udienza del 27 ottobre 1976.
Considerato in diritto
1. - Come si è più ampiamente esposto in narrativa, al termine di un procedimento penale a carico di un funzionario dello Stato e di altri soggetti, con sentenze divenute irrevocabili, il detto funzionario e due coimputati risultarono condannati per i delitti di cui agli artt. 262 e 319 del codice penale mentre altri coimputati per correità negli stessi reati risultarono invece assolti per insufficienza di prove. Ma con sentenza 14 dicembre 1962 la Corte di cassazione, in accoglimento della istanza di revisione proposta dall'imputato principale, che era stato condannato, annullava senza rinvio le dette sentenze assolvendolo da entrambe le imputazioni per insussistenza dei fatti addebitatigli. Analoga pronunzia emetteva successivamente nei confronti di altro condannato.
La Corte di cassazione veniva, infine, adita da uno degli assolti per insufficienza di prove dalla imputazione di correità nel delitto di cui all'art. 262 c.p. perchè fosse dichiarato in suo favore l'effetto estensivo ex art. 203 c.p.p. delle precedenti pronunce, le quali, in sede di revisione, avevano accertato l'insussistenza degli stessi fatti che invece erano stati posti a base della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove nei di lui confronti.
Si desume dalla motivazione dell'ordinanza di rimessione che il dubbio di legittimità costituzionale delle norme denunziate (artt. 553 e 554 c.p.p.), le quali non prevedono che possa essere richiesta la revisione delle sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, è prospettato limitatamente alla produzione dell'effetto estensivo di cui all'art. 203 c.p.p. e deve quindi ritenersi, anche se quest'ultima norma non è richiamata nel dispositivo, che sostanzialmente sia stato denunziato il combinato disposto degli artt. 203, 553 e 554 c.p.p. nella parte in cui non consente che la sentenza emessa in favore di un condannato in sede di revisione spieghi effetto estensivo nei confronti del coimputato concorrente nello stesso reato ed assolto da esso per insufficienza di prove.
2. - Così precisata e delimitata, la questione appare fondata.
E' indubbio, infatti, che il proscioglimento per insufficienza di prove (che fa parte del diritto vigente, ancorchè la legge 3 aprile 1974, n. 108, contenente delega al Governo per la emanazione del nuovo codice di procedura penale, preveda nell'art. 2, n. 11 l'abolizione della formula) comporta per l'imputato - quantunque assolto - una serie di conseguenze a lui sfavorevoli sia sul piano etico (per le ombre che da essa si proiettano sulla sua figura morale, specie se si tratti di reati di particolare gravità o che siano specialmente riprovati dalla pubblica opinione) sia sul piano strettamente giuridico: conseguenze tutte che ovviamente possono comportare un serio ostacolo al pieno reinserimento dell'imputato nella vita sociale.
Nell'ambito strettamente legislativo va menzionato l'articolo 601 c.p.p. che presuppone esplicitamente la esistenza "di incapacità perpetue derivanti da sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove" e che non risulta espressamente abrogato pur essendo ormai in gran parte svuotato di contenuto dopo la dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 164-176 testo unico delle leggi di p.s. di cui al r.d. 18 giugno 1931, n. 773 e relativi alla ammonizione, e la caducazione di altre norme quali, ad es., l'art. 10, n. 3 Reg. giudiziario 30 dicembre 1923, n. 2786 e gli artt. 81 e 82 Reg. 7 aprile 1925, n. 405 per il personale ferroviario. Vanno ricordati, altresì, gli artt. 604 e 606 dello stesso codice p.p. i quali includono le sentenze di assoluzione per insufficienza di prove fra quelle che debbono essere iscritte nel casellario giudiziale e menzionate nei certificati rilasciati ad autorità ed aziende pubbliche (tranne che siano state pronunciate per contravvenzioni punibili con la sola ammenda) e considerano le sentenze di assoluzione con formula dubitativa, al pari di quelle di condanna, anche se non divenute irrevocabili, quale presupposto per la iscrizione nel predetto casellario delle sentenze di proscioglimento per una causa di estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità. Nè meno rilevante appare l'art. 64 delle disposizioni di attuazione c.p.p. secondo cui "se le leggi, i decreti o le convenzioni internazionali fanno derivare una incapacità giuridica da sentenze di proscioglimento, tale effetto si intende limitato alle sentenze di proscioglimento per insufficienza di prove".
Con riferimento poi alle disposizioni contenute in leggi speciali possono ricordarsi, tra le più significative, ancorchè applicabili anche ad altre ipotesi di proscioglimento, l'art. 97 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), per il quale l'impiegato prosciolto o assolto per insufficienza di prove può essere sottoposto a procedimento disciplinare, e, in termini ancora più tassativi, l'art. 29 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, sulle guarentigie della magistratura nonchè l'art. 44 della legge 27 novembre 1933, n. 1578 (contenente norme sull'ordinamento della professione di avvocato e di procuratore) i quali prevedono, in tali casi, come obbligatorio, l'inizio dell'azione disciplinare. E' da notare ancora che l'art. 97 del già citato d.P.R. n. 3 del 1957 prevede, altresì, che la sospensione cautelare disposta in dipendenza del procedimento penale sia mantenuta dopo l'inizio del procedimento disciplinare.
Nè va taciuto, come si è anche osservato in dottrina, che ulteriori effetti sfavorevoli della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove derivano all'imputato, pur in mancanza di espressi riferimenti legislativi, ma secondo prassi correnti (discutibili o meno che esse siano), nei settori più svariati. Così, ad esempio, nella valutazione che in sede di applicazione della pena il giudice deve compiere ai fini della determinazione della capacità a delinquere del colpevole (art. 133 cpv. n. 2 c.p.) e, in sede di applicazione delle misure di sicurezza, della sua pericolosità sociale (art. 203 c.p.) come pure ai fini dell'accertamento della qualità di persona pericolosa per la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità, richiesta per l'applicazione della legge 27 dicembre 1956, n. 1423.
Attesa l'esistenza dei vari effetti pregiudizievoli sopramenzionati, e la cui affinità con quelli derivanti dalla sentenza di condanna non può razionalmente essere negata, appare evidente che la disciplina vigente, quale risulta dagli artt. 203, 553 e 554 c.p.p., non consentendo che la decisione emessa in sede di revisione in favore di un condannato possa giovare, ricorrendo gli estremi del detto art. 203, a chi, imputato di concorso nello stesso reato ne sia stato assolto per insufficienza di prove, violi il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. non essendo basata su presupposti logici e giuridici che valgano a giustificarne la adozione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 203, 553 e 554 del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un condannato possa spiegare l'effetto estensivo nei confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per insufficienza di prove.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 novembre 1976.
Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 6 dicembre 1976.