TRIBUNALE ROMA Ordinanza 9.11.2006
La rivoluzionaria ordinanza del Tribunale di Roma rompe definitivamente gli angusti argini del giudicato penale interno e, in base alla corretta interpretazione delle norme interne e comunitarie nonché del loro rango e precettività, sancisce che le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno immediatamente applicate dal giudice interno in quanto diretta espressione del diritto comunitario.
Tribunale Penale di Roma
Sezione Ottava Collegiale
Ordinanza 9.11.2006 (c.c. 25.09.2006)
Il formale ossequio al giudicato nazionale è viziato dalla trasgressione sostanziale alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quindi viene logicamente affermata la supremazia della pronuncia emessa in sede sovranazionale, vincolante il giudice nazionale in punto di diritto: spetterà al giudice dell’esecuzione, in sede di valutazione della legittimità del titolo esecutivo ex art. 670 c.p.p., conformarsi alla pronuncia di Strasburgo, se essa ha inficiato il titolo esecutivo, e dichiarare la non esecutività del titolo medesimo. (Omissis).
Si premette che la presente vicenda processuale trova la sua origine nella pronuncia di responsabilità di B., all’esito del processo di 1° grado a suo carico, definito con la sentenza del Tribunale di Roma 2.11.1998 recante condanna alla pena di anni 6 di reclusione per una serie di delitti, tra i quali rapina e tentata rapina, lesioni personali, violenza sessuale e porto d’armi.
In particolare, il processo si sostanziò nella valutazione di penale responsabilità in ordine a tre distinti fatti, variamente graduati, rappresentati da violenze sessuali e/o rapine in danno di tre diverse prostitute nelle giornate del 18.10.1997, 10.03 e 11.03.1998, circostanza ultima che portò all’identificazione e all'arresto in flagranza del B.
I primi due episodi ruotarono processualmente intorno alla questione dell'acquisizione mediante lettura, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., delle sommarie informazioni rese dalle persone offese, cittadine straniere prive di regolare titolo di permanenza in Italia, definite in atti Y ed X: ciò a seguito della constatazione della sopravvenuta loro irreperibilità, reputata imprevedibile all’atto della prima, rispettiva assunzione verbale (…). Confermata integralmente la sentenza in grado d'appello e rigettato il ricorso per Cassazione, il condannato proponeva richiesta di revisione fondata proprio sull'impossibilità di esaminare in giudizio le testimoni X ed Y nonché sulla mancata ammissione del test del DNA sullo sperma presente sulla gonna della teste X, sequestrata dalla Polizia, come già richiesto per la prima volta in occasione del giudizio d'appello.
La Corte d'Appello di Perugia dichiarava in data 5.03.2002 l'inammissibilità dell'istanza per manifesta infondatezza, con decisione confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza 5.02.2003.
Nelle more il B. si era pure rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ai sensi dell'art. 34 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, asserendo l'iniquità del giudizio a suo carico, sotto svariati profili, sostanzialmente riconducibili ai motivi fondanti la richiesta di revisione del processo nazionale.
Con sentenza dd. 22.09.2005 (dep. il 13.10.2005) la Corte Europea, pur respingendo per gran parte il ricorso (segnatamente laddove il B. lamentava la mancanza di indipendenza ed imparzialità dei giudici italiani, il rigetto di ammissione del test del DNA sui residui biologici e l'impossibilità di contro esaminare la teste X in quanto la pronuncia era sul punto corroborata da ulteriori, sufficienti elementi di prova), accoglieva le doglianze limitatamente alla pronuncia di responsabilità per i delitti commessi in danno della teste Y, il cui esame difensivo era risultato impossibile.
Osservava la Corte che, essendo si gli organi giudicanti italiani fondati per i capi p, q, r, unicamente sulle dichiarazioni verbalizzate della vittima degli stessi, era mancata al ricorrente qualsiasi occasione di contestarne le accuse, senza che la pur legittima previsione nazionale della lettura delle dichiarazioni pregresse, ove divenute irripetibili, ancora possa privare “l'imputato del diritto, riconosciutogli dall'art. 6 § 3 d) di esaminare o di fare esaminare in contraddittorio ogni elemento di prova sostanziale a suo carico” (cfr. § 60 sentenza in atti).
Si concludeva, pertanto, nel senso della non equità del processo a carico di B. per violazione dell' art. 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione (“ogni imputato ha diritto soprattutto a : …..d) interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico”) limitatamente alla censurata impossibilità di interrogare la testimone a carico Y.
Il procedimento in sede europea si concludeva, peraltro, senza alcun indennizzo, anche a fronte della parzialità dell'accoglimento del ricorso, ritenuto che “la constatazione di una violazione costituisca di per sé un’equa soddisfazione sufficiente” (§§ 72 e 74 sentenza) (…).
D’altra parte, trattasi di arresto oramai diffuso e pubblicato sulle riviste di settore a seguito della notorietà derivante pure dagli spinosi, più ampi riflessi che la pronuncia ha posto sul tema dell'utilizzo processuale e dell'impatto in sede di giurisdizione sovranazionale dell'istituto dell'acquisizione a mezzo lettura delle dichiarazioni irripetibili, codificato dall'art. 512 c.p.p.
Quanto alle sue specifiche conseguenze sul caso di specie, la decisione ripropone il dibattuto e tuttora irrisolto quesito sull'esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani, laddove l’obbligo del pagamento della somma di denaro a titolo di equa soddisfazione, eventualmente concessa dalla Corte ai sensi dell'art. 41 della Convenzione, non consenta la restitutio in integrum rispetto alla trasgressione del diritto fondamentale accertata.
La constatazione, già anticipata, che nel caso di specie la Corte Europea ha negato l'indennizzo pecuniario prefigurato dall'art. 41 Conv., consentito laddove “il diritto interno dell’ Alta Parte contraente permette di riparare solo in parte alle conseguenze di tale violazione”, ancor non risulta decisiva: residuando l'indiscutibile risultato che il B. risulta attualmente detenuto in virtù di un titolo esecutivo che per una parte, sia pur in concreto minima (cioè quella riconducibile all’aumento di pena stimabile per i capi sub p, q, r, corrispondente ai fatti commessi in danno di Y), si è formato in virtù di un procedimento giudicato in contrasto con la Convenzione europea.
Ne consegue che, quand'anche in maniera ridotta, il B. rischia di rimanere esposto alle conseguenze negative di un provvedimento giurisdizionale non equo, con (certa) violazione del suo diritto di difesa e (possibile) aggressione al bene primario della libertà personale; né esse risultano riparabili dal riconoscimento (nel caso neppure avvenuto) di una giusta soddisfazione pecuniaria, che non può che mantenere pur in astratto, alla luce dei connotati della pronuncia che ha sancito la parziale illegittimità della condanna, intrinseco carattere di accessorietà.
Il rilievo che il procedimento di esecuzione azionato consente unicamente l'indagine in ordine al controllo dell'esistenza del titolo esecutivo e della legittimità della sua emissione, senza alcuna facoltà di una valutazione o rivalutazione di nullità consumatesi durante il giudizio di cognizione e prima del passaggio in giudicato, riservate alle censure in sede di mezzi di gravame disposti dalla legge (Cass. 10.06.2004 n. 37979; Cass. 14.07.1999 n. 5003; Cass. 15.06.1998 n. 3517; Cass. 4.03.1998 n. 748, tra le più recenti), risulta parimenti insoddisfacente ed inappagante.
Basti il rilievo che in virtù di tale consolidata ed indiscussa interpretazione di legittimità la richiesta della difesa, di declaratoria della non eseguibilità allo stato della condanna del B., dovrebbe venire immediatamente respinta (anche se non più dichiarata inammissibile de plano ai sensi dell'art. 666 comma 2 c.p.p., cfr. Cass. 3.10.2005 n. 356161 in causa Cat Berro): tuttora permanendo la validità del titolo sul quale si fonda l'intrapresa esecuzione, di cui - alla luce dell'esegesi tradizionale - sussistono tutti i requisiti di legalità formale e di regolarità sostanziale, non essendo stato lamentato alcun fatto potenzialmente ostativo al passaggio in giudicato di quella sentenza di condanna.
Riduttivo all'opposto pare l'argomento del Pubblico Ministero che fa appello ad un utilizzo delle dichiarazioni delle persone offese Y ed X perfettamente in linea con le norme nazionali: fatto effettivamente riconosciuto dalla stessa Corte Europea, ma che non sposta in alcun modo i termini né risolve il problema, da un lato ruotante intorno alla (riconosciuta) violazione di una norma sopranazionale, prevalente sul diritto interno; dall'altro lato alla tutela diretta e immediata che le norme della CEDU attribuiscono ai cittadini, consacrata dal principio per cui “le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte…” (art. 46 Convenzione, “Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”).
D’altra parte, la stessa Corte Europea, sulla scorta di una sua recente ma oramai consolidata impostazione, nella stessa pronuncia qui in esame, ha sostenuto che "quando la Corte conclude che la condanna di un ricorrente è stata pronunciata al termine di un procedimento che non era equo, essa ritiene che in linea di principio la riparazione più appropriata sarebbe di far procedere ad un nuovo giudizio dell’interessato tempestivamente e nel rispetto delle esigenze dell'articolo 6” (si vedano...Somogyi/ltalia n. 67972/01..) (…).
Quanto al profilo inerente la forza delle norme europee, risulta dato oramai acquisito quello della precettività della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, firmata a Roma il 4.11.1950, resa esecutiva con la legge 4.08.1955 n. 848 ed entrata in vigore il 26.10.1955, dunque introdotta nell’ordinamento italiano con la forza propria degli atti contenenti l’ordine di esecuzione: non abrogata né modificabile da fonti ordinarie successive, non solo e non tanto per l'espressa subordinazione ad essa affermata nelle direttive dell'attuale codice di procedura penale (cfr. art. 2 Legge delega 16.02.1987 n. 81, “il codice ...deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”), quanto piuttosto perché si tratta di norme introdotte da una fonte riconducibile ad una competenza atipica, dotata di resistenza rispetto alle nonne primarie successive (cfr. Corte Cost., sent. 10/1993; idem, Cass. SS.UU. Civili 23.12.2005 n. 28507, in causa Scotto; Cass. SS.UU. Civili 26.01.2004 n. 1338, 1339 e 1340; Cass. sez. I^ pen. 10.07.1993 n. 2194 in causa Medrano sulla scorta di Cass. SS.UU. 23.11.1988 n. 15, in causa Polo Castro).
La precettività insita nella forza delle norme convenzionali comporta la necessità della loro immediata, automatica applicazione nell'ordinamento interno, sempre che la norma di diritto internazionale sia definita nei suoi elementi costitutivi essenziali; mentre l'atto internazionale non contenente specifici diritti ed obblighi presuppone l'intermediazione dell'attività legislativa dello Stato (autorevolmente in tal senso, a composizione di un contrasto insorto in precedenza, Cass. SS. UU. penali 23.11.1988 cit).
Ne consegue ulteriormente che il complesso normativo di riferimento per il Giudice nazionale è composto pure da tali fonti, poste per di più in posizione privilegiata: tra le quali si ascrive, per la sua specificità e puntualità, anche l'art. 6 CEDU, dunque di adattamento automatico nell'ordinamento nazionale (cfr. per la recente affermazione secondo cui “le norme della Convenzione Europea di Salvaguardia dei diritti dell'uomo… sono insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria...: le disposizioni della Convenzione devono essere. pertanto. applicate dal giudice italiano”, Cass. 3.10.2005 n. 35616, ric. Cat Berro).
Per ciò che concerne, invece, la questione rappresentata dall'efficacia delle sentenze della Corte Europea sancita dall'art. 46 CEDU, è oramai risultato acquisito che la reazione degli ordinamenti nazionali ad una pronuncia che accerti la violazione di uno dei diritti fondamentali del soggetto condannato e, più che mai, il diritto alla libertà e alla sicurezza nonché ad un processo equo (artt. 5 e 6 CEDU), deve muoversi tanto nella prospettiva della rimozione della lesione denunciata nel caso giudicato, quanto, all’occorrenza, dell’approvazione di misure generali, ove si tratti di limite strutturale dell'ordinamento.
Deve altresì provvedersi alla corresponsione dell'equo indennizzo di cui all'art. 41 Conv., laddove residui l’impossibilità di restitutio in integrum rispetto alla violazione accertata dalla Corte (qui, come già anticipato, sostituita dal riconoscimento morale dell'infrazione al diritto ad un giusto processo nell'ambito della procedura italiana).
I prodromi del superamento della datata (ed ampiamente insoddisfacente) concezione secondo la quale il portato dell'art. 46 CEDU si esauriva nell'obbligo a carico degli Stati convenuti del pagamento della somma di denaro stabilita dalla Corte, senza alcun obbligo per essi di adottare le misure di carattere generale e/o individuale necessarie ad eliminare la violazione e, al contempo, a prevenirne di ulteriori, si rinvengono a livello normativo nell'adozione del Protocollo 11 di modifica dell'art. 46, firmato a Strasburgo 1’11.05.1994, ratificato dall'Italia con Legge 28.08.1997 n. 296, entrata in vigore l’1.10.1997. Con detto atto si introduceva per la prima volta l’obbligo giuridico degli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie di cui erano parti, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, prefigurando persino la creazione di una Corte Unica (in sostituzione del Comitato dei Ministri, preposto alla vigilanza sull'esecuzione delle sentenze dall'art. 46 CEDU allora vigente): in tal modo giurisdizionalizzando pure la fase ultima ed esecutiva delle decisioni della Corte europea, sino ad allora rimessa alla sola forza sollecitatoria diplomatica e di moral suasion del Comitato dei Ministri nei riguardi degli Stati inadempienti.
Nelle more dell'adozione dei necessari strumenti di ratifica del Protocollo n. 11, in effetti il Comitato dei Ministri Europeo si è segnalato per una maggior incisività dei suoi interventi e una sempre minor timidezza nei confronti dei Governi nazionali, in particolare quello italiano, frequente destinatario di pronunce di condanna da parte della Corte e, come in seguito si vedrà, del tutto inerte nell' adozione di adeguati strumenti legislativi generali di ripristino della legalità processuale.
Il Comitato dei Ministri, infatti, sin dal 19.01.2000 emanò la fondamentale Raccomandazione n. R -2000- 2, indirizzata a tutti gli Stati contraenti in cui sollecitava il riesame o la riapertura di casi nazionali oggetto delle censure della Corte Europea, attribuendosi il potere di verifica del modo, pur del tutto discrezionale, in cui lo Stato destinatario della pronuncia di condanna aveva ritenuto di adempiere, sia con misure individuali al fine di far cessare la violazione, sia attraverso misure generali volte a prevenire situazioni illecite similari future.
Specificamente l'Italia era finita sotto osservazione sin da tempi precedenti per la cd. vicenda DORIGO (decisa con sentenza della Corte Europea dd. 9.09.1998, dichiarante la non equità del processo in relazione all'art. 6 comma 3 letto d) CEDU, atteso l'utilizzo ex art. 513 c.p.p. di dichiarazioni etero-accusatorie senza alcun contraddittorio processuale): laddove ancora in data 15.04.1999 (Risoluzione DH -99¬258) e, successivamente, in data 19.02.2002 (Risoluzione DH-2002- 30) il Comitato dei Ministri constatò come, sino a quel momento, non fosse stato adottato alcuno strumento tecnico per la riapertura del processo a carico di DORIGO Paolo, sì che la violazione accertata permaneva.
Lo stato di osservazione deliberato dal Comitato Europeo avverso l'Italia sull’ “affaire DORlGO" determinò una terza risoluzione (DH -2004 - 13 dd. 10.02.2004) in cui si sollecitò nuovamente lo Stato italiano a promuovere misure di rimozione del danno patito dal ricorrente.
La procedura si risolse in una mera interlocuzione (anziché in una condanna) solo in ragione dei lavori legislativi allora in corso volti a garantire il rispetto della detta decisione (si trattava, al tempo, dei disegni di legge di iniziativa parlamentare n. 1447 e 1992, oggetto di esame nel corso dell'anno 2003, cfr. seduta n. 304 del 6.05.2003 e, successivamente, n. S-2441, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato nell'anno 2004, recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito di sentenze della Corte Europea dei diritti dell'Uomo”; per analogo stato di osservazione, cfr. altresì Risoluzione Interinale ResDH - 2001 - 65, conseguente alla sentenza Corte Europea 13.07.2000, in causa Scozzari e Giunta c/ITALIA, ove venne dichiarata una duplice violazione dell'art. 8 CEDU in materia di affidamento di due minori).
Di tale sindacato convenzionale sulle scelte nazionali adottate al fine di restituire in integrum il ricorrente e di impedire la reiterazione di analoghe violazioni future, il Comitato dei Ministri ha fatto ampio utilizzo in anni recenti: fino alla approvazione del Protocollo 14 alla Convenzione, firmato a Strasburgo il 13.05.2004, attualmente ancora aperto al deposito degli strumenti di ratifica degli Stati contraenti.
Con esso, si è emendato l'art. 46 della Convenzione attribuendo importanti poteri di controllo e di impulso al Comitato dei Ministri: tale organo, sia pur a maggioranza qualificata dei due terzi, potrà investire la Corte della mancata esecuzione di una sentenza da parte dello Stato convenuto, provocandone una pronuncia prodromica ad eventuali sanzioni successive decise dal Comitato stesso (commi 4 e 5 art. 46 cit.).
Si è in tal modo introdotta una verifica della fase esecutiva delle sentenze della Corte di stampo giurisdizionale, pur nel rispetto del principio generale tuttora supposto della natura puramente dichiarativa e di mero accertamento (e non già costitutiva) di esse, in quanto tali non invocabili direttamente dal cittadino europeo nei confronti dello Stato (a differenza di quanto sancito, ad es., per le pronunce della Corte Interamericana dei Diritti Umani, le cui sentenze di condanna al risarcimento del danno costituiscono titolo esecutivo, azionabile direttamente entro lo Stato convenuto).
L'essenza delle pronunce della Corte di Strasburgo consiste, invece, nell'imposizione di un’obbligazione legale gravante sugli Stati di esplorare il diritto interno per giungere alla soluzione ripristinatoria e, laddove necessario al fine di impedire violazioni future, di adattare l'ordinamento nazionale ai disposti giudiziali: anche rimuovendo eventuali ostacoli di sistema, al fine di evitare l'interdizione ministeriale conto i Paesi inadempienti. L'Italia ha recepito senza alcuna riserva tale Protocollo, ratificato con Legge 15.12.2005 n. 280 (cfr. art. 2, “piena ed intera esecuzione è data al Protocollo di cui all'art. 1…”), entrata in vigore il 6.01.2006, coeva ad altro significativo intervento legislativo: vale a dire la Legge 9.01.2006 n. 12 che, aggiungendo la lettera a)-bis all’art. 5 comma 3 della Legge 23.08.1988 n. 400, ha attribuito alla Presidenza del Consiglio l'onere di promuovere “gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo emanate nei confronti dello Stato Italiano”, anche a mezzo delle opportune comunicazioni istituzionali al fine di sollecitare le iniziative parlamentari sul punto (per una lucida disamina dei termini della questione, cfr. i contenuti della proposta di legge d’iniziativa parlamentare n. 5872, presentata alla Camera dei Deputati il 25.05.2005, e sfociata nell'approvazione della suddetta Legge 12).
Allo stato attuale, dunque, risulta già chiaramente espresso ed accolto dal legislatore italiano l’astratto principio costituito dall'obbligo incondizionato di rispettare ed adempiere alle pronunce della Corte Europea; ancor prima è jus receptum la necessità che i giudici nazionali interpretino ed applichino il diritto interno in modo conforme alla Convenzione, tanto più a fronte della cd. comunitarizzazione dei diritti fondamentali da essa garantiti ad opera dell'art. 6 § 2 del Trattato dell'Unione Europea, ratificato con Legge 454/1992 e dell'adesione dell'Unione Europea alla CEDU, con inclusione del Titolo I, cioè quello relativo ai diritti fondamentali (“Diritti e libertà”) nella parte del Trattato adottante la Costituzione Europea, ratificato con Legge nazionale 57/2005.
Manifestazione pur ancor timida e parziale, della valenza endoprocessuale diretta delle pronunce della Corte Europea sui casi trattati dalla giurisdizione nazionale e di un primo tentativo di adattamento e di introduzione di un rimedio interno individuale specifico si rinviene nel contemporaneo D.P.R. 28.11.2005 n. 289 (“Regolamento recante integrazioni al Testo Unico di cui al D.P.R. 14.11.2002 n. 313 in materia di Casellario Giudiziale”): ove si prescrive l'introduzione al Casellario dell'iscrizione della decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo concernente '“provvedimenti giudiziali ed amministrativi definiti dalle Autorità nazionali e già iscritti” (art. 1).
Trattasi di innovazione che, quand’anche formale e apparentemente foriera di una mera soddisfazione di tipo morale per l'interessato ancor non assumendo in sé significato di rimozione del giudicato, ben potrà essere letta in un’ottica sostanziale più ampia: quale l'irrilevanza degli effetti penali della sentenza di condanna nel diritto interno o l'esclusione di quel precedente ai fini del riconoscimento della sospensione condizionale o della dichiarazione della recidiva.
Soprattutto l'innovazione è sintomatica di un avvicinamento progressivo del legislatore italiano al pieno riconoscimento del rilievo e dell'efficacia della sentenza del Giudice Europeo, invocato in maniera ancora più esplicita e fuor di cautela dal Consiglio di Stato, sez. Consultiva, nel suo parere sul Regolamento Ministeriale (cfr. parere 24.10.2005 n. 4304/2005: “ove la giurisdizione interna sia stata esercitata in violazione dei...precetti della Convenzione, il soggetto che da tale cattivo esercizio abbia subito lesione ben potrà far valere nell'ordinamento interno gli effetti, se non pur l'efficacia diretta della pronuncia della Corte…”).
Importanza decisiva in questa progressiva presa d’atto del valore del giudicato europeo e, al contempo, di stimolo per l’attribuzione di adeguato significato alla norma dell'art. 46 CEDU (sia pur nella formulazione al tempo vigente), compete naturalmente alla medesima Corte la quale, in forme sempre più dirette e cogenti, si è svincolata dalla sua natura puramente risarcitoria e si è espressa nel senso della necessità che al riconoscimento della violazione dei diritti umani da essa accertata consegua un’obbligazione di risultato dello Stato membro, cioè quella di pervenire ad eliminare la violazione dichiarata: in particolare, con la scelta, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, delle misure generali e/o individuali che la facciano cessare, al contempo rimovendo le conseguenze di danno o di pregiudizio insite nell’inottemperanza ai disposti convenzionali (sulla scorta dell'importante pronuncia Scozzari e Giunta c/Italia cit., cfr. Corte Europea 27.02.2001, Lucà c/Italia; Lyons ed altri c/Regno Unito, dec. n. 15227/03; Corte Europea 23.10.2003, Gencel c/Turchia e 29.01.2004, Tahir Duran c/Turchia in ipotesi di violazioni dell'indipendenza e dell'imparzialità delle Corti di sicurezza dello Stato ex. art. 6 comma l CEDU; Corte Europea 18.05.2004, Somogyi c/Italia cit.; Corte Europea 10.11.2004, Sejdovic/Italia; per un caso di larga notorietà, cfr. Grande Camera Corte Europea, Ocalan c/Turchia, n. 46221/99, § 210, 12.05.2005).
In tale quadro, l'obbligazione pecuniaria, nascente dall'eventuale condanna specifica della Corte ai sensi dell'art. 41 CEDU, in conformità alle indicazioni degli autori della norma, tratte dai lavori preparatori, non può che assumere carattere sussidiario ed accessorio rispetto all'obbligo di adempimento in forma specifica, sia pur non ancora fondata sul titolo costituito dal giudicato della Corte, bensì sul dovere nascente dal recepimento nei singoli ordinamenti nazionali della CEDU: formulato, come già illustrato, nel senso dell'imposizione dell’obbligo di cessazione della violazione constatata e della rimozione degli effetti prodotti, nell’ambito della descritta discrezionalità vincolata nel fine e vigilata nel suo risultato dai Comitato dei Ministri europeo (cfr. § 119 sentenza Grande Camera Corte Europea 1.03.2006, Sejdovic c/Italia).
La particolarità della fattispecie esaminata ha persino indotto la Corte in un caso ad ingiungere allo Stato inadempiente il rilascio “nel più breve tempo possibile (del) ricorrente” (Grande Camera dee. 8.04.2004, Assanidzé c/Georgia); se non ad indicare addirittura vere e proprie misure generali di adeguamento dell'ordinamento interno rispetto ad accertati problemi sistematici o strutturali, aventi astratta capacità di impatto su un ampio numero di cittadini (trattasi della cd. procedura di sentenza pilota, deliberata dalla Corte nella causa Broniowski c/ Polonia, composizione amichevole n. 31443/96, 28.11.2005).
In tale significativo ed innovativo contesto, di matrice sia legislativa sia giurisprudenziale, si collocano alcune recenti, importanti pronunce su casi nazionali, che meglio consentono di inquadrare ed interpretare la vicenda B. qui in esame: quale, appunto, la sentenza 18.05.2004 in causa Somogyi c/Italia, ove la Corte, constatata l'inottemperanza all'art. 6 CEDU per non essere stato il ricorrente messo in grado di esercitare il suo diritto di partecipare al processo, dopo essere stato giudicato in contumacia e dopo il rigetto dell'istanza di restituzione in termini, affermava la necessità che egli fosse posto in una condizione il più possibile equivalente a quella in cui si sarebbe trovato ove la disposizione convenzionale non fosse stata violata, indicando quale rimedio più appropriato “quello di rinnovare il processo a carico dell'interessato ovvero di riaprire la procedura in tempo utile e nel rispetto delle condizioni previste dall'art. 6 della Convenzione” (§ 86).
Altresì si segnala la sentenza della Corte Europea, riunita nella Grande Camera, che confermando la pronuncia 10.11.2004 cit. in causa Sejdovic, ha ribadito la violazione dell'art. 6 CEDU sotto il profilo del diniego del diritto di accesso ad un Tribunale, garantito all'imputato, dichiarato latitante nel processo interno, in assenza di atti inequivoci volti a dimostrare la sua rinuncia a comparire nel processo, attesa l’oggettiva impossibilità del condannato al tempo di giovarsi del ricorso al rimedio dell'art. 175 2° comma c.p.p., nella formulazione vigente in data 22.09.1999, data di arresto dell'interessato (sent. 1.03.2006, ove pure la Grande Camera si è astenuta dall'indicazione di misure di carattere generale adottabili a livello nazionale a :fini esecutivi della sentenza per la presa d'atto della sopravvenuta modifica nelle more dell'art. 175 c.p.p. ad opera del D.L. 21.02.2005 n. 17, conv. in Legge 22.04.2005 n. 60 e dell' assenza di un definito orientamento giurisprudenziale interno che ne avesse fatto ancora applicazione, §§ 122, 123 e 124).
Proprio le affermazioni rese in tale ultima pronuncia, che pur si ascrive nel filone interpretativo più avanzato della obbligatorietà dell'adempimento in forma specifica dei deliberati della Corte ogni qualvolta il procedimento nazionale sia viziato da violazioni sostanziali dell'art. 6 CEDU (quali) requisiti di equità del giudizio), offrono una spia interpretativa autentica: atteso che, a detta della Corte Europea, “se un nuovo processo o una riapertura del procedimento su richiesta dell'interessato rimane in linea di principio un mezzo adeguato per riparare la violazione constatata non spetta alla Corte indicare le modalità e la forma di un nuovo eventuale processo.
Lo Stato convenuto resta libero di scegliere i mezzi per adempiere al proprio obbligo di mettere il ricorrente, quanto più possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non avesse subito una inosservanza dei requisiti della Convenzione…” (§§ 126 e 127).
L'anticipato suggerimento della Corte Europea di procedere alla rinnovazione del processo nella vicenda B., ove vi è stata lesione al diritto convenzionale dell'accusato di interrogare i testimoni a carico, non può dunque essere letto se non tenuto presente il quadro di riferimento della sostanziale discrezionalità nel modo, quand'anche non nel fine, dello Stato Italiano di scegliere i mezzi e le forme per ottemperare alla rimozione della lesione: sia perché “la Corte non può speculare sull'esito al quale sarebbe giunto il procedimento controverso se fosse stato conforme all'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione” (§ 73 sent. Bracci c/ Italia); sia perché le misure di riparazione specifica vanno adottate “all'occorrenza, da parte d(ello) Stato convenuto... e devono essere definite alla luce della sentenza della Corte nella causa in questione” (§ 126 sent. 1.03.2006 in causa Sejdovic cl Italia).
Viene quindi a tutt’oggi autenticamente ribadito che il destinatario della decisione della Corte Europea è lo Stato convenuto e non già il giudice nazionale, perseverando la prima nella posizione di una ferma delimitazione tra la declaratoria dell'inadempimento, quand’anche accompagnato dall'indicazione della necessità di misure individuali e/o generali, e il controllo sull'esecuzione dei suoi enunciati: ancora rimesso alla libertà degli Stati contraenti in sede di pattuizione negoziale e alla supervisione del Comitato dei Ministri, di cui, peraltro, la Corte nella nuova formulazione dell'art. 46 CEDU introdotta dal Protocollo 14, è divenuta organo collaterale con poteri rafforzati (ai :fini dell'interpretazione della sentenza e della eventuale declaratoria di accertamento della violazione da parte dello Stato convenuto, sollecitata dalla maggioranza qualificata dell'organo politico, commi 3 e 5 art. 46 cit.).
Lo Stato italiano, a differenza di altri Paesi europei, quali la FRANCIA, l'AUSTRIA, la GERMANIA, il REGNO UNITO, la POLONIA, la BULGARIA, la SVIZZERA, non si è ad oggi dotato di espresse disposizioni normative che consentano l’automatica riapertura e/o la ripetizione del processo dopo la censura da parte della Corte in ordine alla violazione di un diritto sostanziale riconosciuto dalla Convenzione o alla constatazione di un vizio procedurale che abbia inciso sulla sorte del procedimento.
Per il vero, la materia é stata portata all'attenzione ripetuta del legislatore, a partire da iniziative parlamentari del 1998, quindi con i progetti già citati degli anni 2003/2004 e da ultimo con il disegno di legge n. 3354 dd. 3.05.2005 d’iniziativa BOREA (“Ratifica ed esecuzione del Protocollo 14 alla Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e disposizioni per l'adempimento delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo”): la più recente, in particolare, si articola nella previsione di una nuova ipotesi di revisione ex. art. 630 c.p.p. in caso di violazione delle regole del giusto processo, laddove il soggetto non sia stato posto in condizione di difendersi in maniera effettiva (citando espressamente proprio la violazione dell'art. 6 § 3 lett. c) e d) e di un nuovo caso di revocazione nel processo civile (art. 395 c.p.c.), ove la Corte Europea abbia riconosciuto la violazione di norme fondamentali in connessione causale con “conseguenze di natura e gravità tali da non poter essere interamente sanate dal riconoscimento dell'equo indennizzo” (art. 3 commi 1 e 3 DdI3354).
Di tale ultimo disegno è stata, invece, approvata solo la prima proposta in ordine alla ratifica del Protocollo 14, modificativo dell'art. 46 CEDU (Legge 280/2005); resta il valore storico e giuridico dell'articolata e ricca relazione di accompagnamento laddove, indicando quale soluzione per eccellenza di adattamento alla sentenza della Corte Europea che abbia affermato l'iniquità del processo italiano quella ripristinatoria, muove dal presupposto della persistente impossibilità nell’ordinamento vigente, comune agli Stati di civil law, di reiterazione del processo nazionale con modalità conformi a giustizia.
Tale presupposto, sia pur espresso de iure condendo dal legislatore, non può che essere condiviso da questo Collegio per una serie di ragioni: a partire dal rilievo centrale che il principio di legalità governante la giurisdizione penale (art. 1 c.p.p.) impone il rispetto delle nonne codicistiche e osta ad una qualsiasi libera se non arbitraria applicazione di rimedi ed istituti processuali non previsti e di pura creazione giurisprudenziale, quand'anche si tratti di rispettare tardivamente principi fondamentali sovra nazionali.
L'inquadramento delle disposizioni codicistiche nella più ampia, generale cornice del cd. giusto processo impone l’affermazione della necessità che lo strumento di accertamento e di verifica della responsabilità penale dell'imputato sia rigorosamente regolata dalla legge cui il nuovo art. 111 comma l Cost. rinvia: sì che la giurisdizione può definirsi legalmente esercitata solo a fronte di norme di fonte primaria che attribuiscano poteri e disciplino le forme del loro esercizio, nonché i rimedi al fine di controllarne la pratica, al contempo regolamentando i rapporti giuridici e generando obblighi e diritti soggettivi in capo al cittadino.
E' evidente che del tutto opinabile e casuale risulterebbe una decisione di questo Ufficio di procedere ad una rinnovazione totale o, quanto meno, parziale, del processo a carico del B., sia pur sviluppando l'indicazione della Corte Europea, cioè una soluzione costituente l'antitesi legale del processo giusto: non essendoci norma di sorta che disciplini essenziali aspetti processuali, quali la competenza, le forme, i tempi della procedura, la correlazione con il giudicato europeo, lo status libertatis del B., gli eventuali rimedi, ecc.; né norma che regoli fatti aventi forte impatto sostanziale, quali la prescrizione e, più in generale, l’inquadramento nell’ordinamento interno delle decisioni della giurisdizione europea rispetto a quelle degli organi giudicanti nazionali.
Basti nel caso la constatazione, che ben potrebbe assumere valore assorbente in astratto, che al B. è stata, infine riconosciuta dal Tribunale di Roma (e confermata nei gradi successivi) la diminuzione di pena prevista dall'art. 442 c.p.p., conseguente all'illegittimo diniego di consenso al giudizio abbreviato espresso al tempo dal Pubblico Ministero: circostanza che pone il problema della possibile riconversione del giudizio ordinario celebrato nel rito abbreviato chiesto, comportante la rinuncia all'esame in contraddittorio da parte dell'imputato dei mezzi di prova proposti dal Pubblico Ministero, ivi compreso l’esame delle persone offese (appunto sanzionato dalla Corte), oltre alla rinuncia ad offrire prove a discarico.
Il fatto che l'eccezione sia stata trattata quale questione preliminare e respinta in quanto tardiva dalla Corte Europea (§§ 36 e 37) ancor non è di ostacolo alla facoltà del legislatore nazionale (futuro) di dettare una disciplina particolare nei casi di specie, laddove cioè la violazione accertata possa risultare ininfluente in termini sanzionatori o, al contrario, di accettare la pronuncia della Corte, anche per le questioni incidentali formali presupposte e risolte: è certo che, pure su tale aspetto, il Giudice nazionale si troverebbe costretto ad affrontare questioni assolutamente nuove e prive di alcun parametro di riferimento legale, con grave rischio di pregiudizio per le superiori esigenze di garanzia di libertà del cittadino, nel cui interesse, al contrario, si invoca l'intervento.
L'inesistenza di una qualsiasi trama normativa di svolgimento e di controllo del potere di esercizio della giurisdizione in questa nuova fase processuale e la discrezionalità che residuerebbe al Giudice investito paiono, pertanto, a questo Collegio i più rilevanti ostacoli ad una qualsiasi intromissione sull'essenza del titolo esecutivo: più che il rilievo dell'esistenza in sé del giudicato penale, richiamato dal Pubblico Ministero, che rappresenta nel caso di specie uno pseudo-problema, destinato ad essere facilmente risolto, non fosse altro per la c.d. sussidiarietà della giurisdizione della Corte Europea (art. 35 CEDU), percorribile esclusivamente laddove siano stati consumati ed esauriti i rimedi di diritto interno, che già dovrebbero garantire il rispetto dei diritti della Convenzione, in quanto norme di riferimento anche per il Giudice italiano.
Qualsiasi pronuncia in sede europea presuppone, dunque, necessariamente l'irrevocabilità della sentenza pronunciata dagli organi interni: sì che la rimozione del giudicato dovrà venire giocoforza affermata da qualsiasi legislatore intenda porre mano alla questione, tanto più a fronte della già avvenuta sua sconsacrazione e relativizzazione in rilevanti situazioni di diritto interno (ad es. negli istituti previsti dagli arti. 625 bis e 630 c.p.p.). D’altra parte, neppure può farsi ricorso ad un’interpretazione adeguatrice dell'attuale art. 630 c.p.p., benché auspicata e ritenuta praticabile in via estensiva nella pronuncia della Corte 27.01.2001, Lucà c/ Italia, est. Zupancic (ed effettivamente raggiunta in via esegetica dagli organi giurisdizionali interni di altri Stati, quali la SPAGNA, la RUSSIA, il BELGIO, la SVEZIA): atteso che i mezzi e i casi di impugnazione nel nostro ordinamento sono di stretta interpretazione (art. 568 comma 1 c.p.p.), ciò che vale più che mai per un rimedio straordinario quale la revisione della sentenza, sì che lo stesso diritto positivo ostacola tale conclusione, come generalmente ritenuto e condiviso.
Deve aggiungersi il rilievo che tale pur qui denegata soluzione risulterebbe inammissibile in quanto sostanziatesi in un’interpretazione analogica, più che estensiva dei casi di revisione, a fronte della dissonanza dell'ipotesi in esame rispetto a quelle disciplinate dall'art. 630 c.p.p.: trovando queste, infatti, il loro comune denominatore nel fine di ovviare ad un errore sul fatto più che nell'errata applicazione di nonne giuridiche, apparentemente priva di sanzione processuale nell'ordinamento penale statale.
Una volta in più, dunque, il giudice nazionale sopperirebbe a scelte, decisioni e opzioni di stretta competenza e riserva del legislatore italiano, non a caso primo destinatario delle pronunce della Corte Europea, sia pur attraverso l' intermediazione dell'Esecutivo, su cui grava l'obbligazione legale posta dall'art. 46 CEDU.
Parimenti inconferenti appaiono i rimedi previsti dalle norme dell'art. 625 bis c.p.p., introdotto dalla Legge 26.03.2001 n°128, e 673 c.p.p.: di cui il primo afferente, come la revisione, la correzione di errori materiali o di fatto nei provvedimenti della Corte di Cassazione, al quale si può dunque estendere il precedente commento; il secondo il superamento del giudicato a seguito dell'abolizione del reato. per abrogazione della norma o dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Trattasi, dunque, di manifestazione in termini processuali di più ampi principi sostanziali (art. 2 cod. pen.), tutt’affatto diversi rispetto ad una sanzione sopranazionale di violazione di diritti convenzionali, sostanziali o formali che siano, riconosciuti ad ogni incolpato, ma non ancora coinvolgenti la vigenza della norma nazionale applicata, né necessariamente incidenti sulla sorte del processo.
Infine destinato a regolare ipotesi diverse, segnatamente il riconoscimento nell’ ordinamento interno di sentenze pronunciate all'estero e non coinvolgenti la giurisdizione italiana, appare l'istituto del riconoscimento delle sentenze penali straniere di cui agli arti. 730 ss. c.p.p., rispondente al più generale principio della prevalenza in materia delle convenzioni e del diritto internazionale generale (art. 696 c.p.p.): dove manca qualsiasi conflitto rispetto a fatti oggetto di pronuncia nazionale, come avviene nel caso in esame.
Né il capo I del titolo IV del Libro XI del codice in tema di rapporti giurisdizionali con le Autorità straniere allestisce mezzi processuali qui adattabili.
E’ opinione del Collegio, dunque, che l'analisi dei rimedi di diritto interno disponibili, cui deve necessariamente ridursi l'esplorazione attesa la riconosciuta supremazia del principio di legalità processuale, non offre strumenti idonei a recepire immediatamente la pur cogente pronuncia della Corte Europea ed impedisce a questo Ufficio la rinnovazione, quand'anche parziale, dell'istruzione dibattimentale di primo grado al fine di emendare la violazione del diritto di difesa patito da B., limitatamente alla condanna pronunciata per i fatti commessi in danno della persona offesa Y.
Impraticabile pare altresì una ipotetica questione di legittimità costituzionale, astrattamente proponibile rispetto ai parametri posti dagli artt. 24, 111 Costo per violazione del diritto di difesa del ricorrente e artt. 10, 11 e 117 comma l Cost., avuto riguardo al dichiarato obbligo del legislatore italiano di conformarsi alle norme del diritto internazionale e alla riconosciuta soggezione della potestà legislativa, anche statuale, ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (…).
Peraltro, il rilievo specifico inerente la sede in cui la questione ora si pone, cioè il procedimento di esecuzione, volto a verificare primariamente la validità ed eseguibilità del titolo esecutivo e giammai a costituire un rimedio, sia pur tardivo, a decisioni giudiziali di merito, quand’anche inique, rende la questione concretamente irrilevante: atteso che, diversamente agendo, si verrebbe a creare surrettiziamente un nuovo mezzo straordinario di impugnazione, avente quale obiettivo il superamento del giudicato nazionale.
La considerazione si congiunge ed identifica con quella relativa alla discrezionalità di forme che competono al legislatore al fine di ottemperare all'obbligazione di risultato costituita dall'adeguamento sistematico, continuativo e strutturale alle decisioni della Corte Europea che dichiarino l'intervenuta violazione di un diritto fondamentale garantito dalla CEDU, quando la pronuncia abbia contenuti estensivi e generali, ovvero comunque la riapertura del processo, se l’impatto della decisione sia di tipo individuale e limitato al ricorrente.
La già rilevata attribuzione alla discrezionalità del legislatore nazionale della scelta delle modalità esecutive delle sentenze della Corte Europea e, in definitiva, della valenza da attribuirvi, connessa al grado di effettività della tutela dei diritti sanciti dalla CEDU cui il Parlamento intenderà accedere, non può che implicare decisioni di ordine generale, eventualmente censurabili in sede di legittimità (laddove in futuro adottate), solo ove contrastanti con il superiore obbligo costituzionale di adeguamento alle norme del diritto internazionale.
Né l’ordinamento attuale nel suo insieme, come già esposto, offre al giudice alcuno strumento normativo che possa porsi come parametro di riferimento interpretativo obbligato, necessario ed esclusivo al fine di fondare una utile comparazione nell'ipotetico giudizio di legittimità, idoneo a superare la lacuna sistematica, così da superare la facile obiezione circa l'assoluta discrezionalità legislativa della disciplina degli istituti processuali (per la recente riaffermazione dei tradizionali limiti dello scrutinio di costituzionalità in materia penale, cfr. Corte Cost., ord. 3.07.2006 n. 292).
In altri termini, la constatazione dell’assoluta assenza nell’ordinamento di una qualsiasi norma di legge che regoli, in via generale e astratta, l'applicazione delle sentenze della Corte dichiarative della violazione delle regole del giusto processo europeo, ostacola la stessa proposizione di un incidente sul punto, non essendo neppure chiaro quale potrebbe essere l’organo giurisdizionale competente - né prospettabile alla Corte Costituzionale - una ipotesi di soluzione vincolata e in qualche modo necessaria per colmare una lacuna apparente: ciò che ben può far dubitare della concreta ammissibilità della questione innanzi a qualsiasi autorità nazionale essa venga in ipotesi posta.
Indirettamente la conclusione è confermata da quegli sporadici, limitati interventi di settore del legislatore nazionale volti ad avviare a specifiche situazioni foriere di un gran numero di ricorsi italiani alla Corte Europea, la cui decisione ha avuto, dunque, un impatto eccedente il caso particolare: si fa cioè riferimento ai disposti della Legge 24.05.2001 n. 89, che ha introdotto il diritto all'equa riparazione in ipotesi di violazione della CEDU “sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6 paragrafo 1 della Convenzione” (art. 2), laddove il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo è la violazione in sé della norma dell'art. 6 della CEDU e lo strumento per farlo valere la via di ricorso interno prima inesistente, istituito appunto dalla legge 89 cito (in termini Cass. SS. UV. Civili 23.12.2005 n. 28507 cit.; a conferma, vds. Cass. 16.04.1996 n. 2549 che aveva escluso l'immediata applicazione nell'ordinamento interno della norma pattizia dell'art. 5 CEDU, invocata a sostegno di una pretesa, irragionevole durata del procedimento e della custodia cautelare, dove la Suprema Corte ha indicato quale norma interna di riferimento l’art. 303 c.p.p.); oppure alle nonne contenute nel capo VIII del libro IV del c.p.p. relative alla “riparazione per ingiusta detenzione”, laddove la Corte di Cassazione già aveva escluso la natura self executing dell'art. 5 CEDU, formulato genericamente in termini di “diritto ad un'equa riparazione”, sino a quando non fosse intervenuta una specifica attività normativa dello Stato, appunto prevista dagli artt. 314 e 315 c.p.p. (sent. 20.05.1991 n° 28507); ovvero la nuova disciplina per l'impugnazione delle sentenze contumaciali, espressamente sollecitata in sede europea, introdotta dal Decreto Legge 17/2005, conv. in Legge 60/2005.
Nessuno dei detti strumenti, peraltro, salvo quanto si preciserà in seguito in termini di ingiusta detenzione, è invocabile nel caso di specie, neppure come tertium comparationis, per l’assoluta diversità delle situazioni e dei presupposti che qui vengono in rilievo, attinenti la violazione sostanziale di uno specifico diritto del B., avente astratta capacità di impatto sulla pronuncia finale di responsabilità (…).
Né, infine, specifici, diversi argomenti possono trarsi dalla importante pronuncia di legittimità intervenuta nelle more di questa decisione (Cass. Pen. sez. I, 12.07.2006, dep. il 3.10.2006, n. 32678 in causa Somogyi): laddove la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla declaratoria di inammissibilità della Corte d'Appello di Bologna del 14.07.2005 della richiesta di restituzione in termini per impugnare una sentenza nell' ambito di un giudizio contumaciale, presentata secondo la formulazione introdotta dal Decreto Legge 17/2005 cit., ha annullato l’ordinanza e restituito “il ricorrente nel termine per proporre appello avverso la sentenza 22 giugno 1999 del Tribunale di Rimini”… la Corte, dopo ampio excursus ricostruttivo imperniato sull'immediata rilevanza nel diritto interno dell'art. 6 CEDU e sulla soggezione del giudice italiano alla giurisprudenza della Corte di STRASBURGO "anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione. attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l'intangibilità del giudicato". ha affermato che la portata precettiva delle sentenze europee non può essere negata o misconosciuta affermando che “l'autorità del giudicato ...precluderebbe di rimettere in discussione le questioni relative alla validità della notificazione dell'avviso d'udienza e alla ritualità della dichiarazione di contumacia” perché “non spetterà al giudice nazionale rimettere in discussione l'accertamento della violazione stessa” (punto 11 sentenza n. 32678/2006).
Tuttavia, la conclusione ivi imposta, cioè la riqualificazione dell'istanza di revisione in quella, reputata equipollente e formalmente adeguata, di remissione nei termini ai sensi dell'art. 175 comma 2 c.p.p. post novella (con restituzione degli atti al Giudice di merito), non può che rafforzare quanto da questo Tribunale in precedenza sostenuto: cioè l’impossibilità di adeguarsi ai disposti, pur vincolanti e qui indiscussi, della Corte Europea, nell’assenza di un qualsiasi strumento normativo che lo imponga e lo autorizzi nel suo concreto esercizio, a differenza di quanto avviene nella vicenda Somogyi. Qui la Corte di legittimità ha sanzionato, infatti, il cattivo uso giudiziario e l'errata interpretazione di mezzi processuali presenti nell'ordinamento ed introdotti dal legislatore nell' anno 2005 proprio per ovviare a carenze sistematiche, ripetutamente censurate dalla Corte Europea (vds. pure la causa Sejdovic c/Italia), e che segnano i binari legali dell' adempimento dell' obbligo di rinnovazione del processo nazionale: altrettanto non potendo, invece, concludersi ove lo strumento tecnico sia indispensabile per il giudice, come avviene laddove sia stigmatizzata l'iniquità sostanziale del processo nazionale, pur qui pienamente condivise ed accolte le più generali affermazioni della Cassazione sul rapporto tra ordinamento interno e sistema giudiziario europeo e sulla sovra-ordinazione del secondo sul primo.
Se dette premesse paiono allo stato indiscutibili, come pure il prevalente orientamento interpretativo dottrinale suppone, ne consegue la constatazione dell’impossibilità di procedere ad una rinnovazione nel merito, pur parziale, del processo a carico del B. e dell’insuperabilità, anche in via interpretativa, della lacuna normativa del sistema.
La questione, tuttavia, si chiude solo in maniera apparente: atteso che in realtà, la precettività delle norme della CEDU, ancora ribadita con forza dalla sent. Cass. 3.10.2006, sviluppabile nelle affermazioni di principio generale espresse con chiarezza, pone l’ulteriore, delicato profilo se l'ossequio coatto al giudicato formale ancora possa legittimare nuove, evitabili violazioni di diritti fondamentali, necessariamente coinvolti ed implicati dalla insuperabile conservazione dello status quo processuale. Si fa cioè riferimento alla norma dell'art. 5 comma 2 lett. a) CEDU, a mente della quale “ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza.
Nessuno può essere privato della libertà salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge: a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente…”.
Trattasi, a ben vedere, del medesimo quesito sottoposto dalla Corte di Cassazione alla Corte d’Assise di Appello di Milano, in sede di annullamento con rinvio dell'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità de plano della richiesta del condannato Cat Berro di pronuncia di ineseguibilità dell’ordine di esecuzione, emesso all'esito di un processo giudicato non equo per violazione dell'art. 6 CEDU, atteso il mancato rispetto del diritto dell'accusato di difendersi personalmente nel giudizio d'appello (Corte Europea sent. 28.08.1991).
La circostanza che, una volta di più, la pronuncia di Strasburgo sia originata da censure relative alle modalità di disciplina del processo italiano svolto in absentia non muta: avendo la Corte di Cassazione spostato i termini del problema proprio sulla necessità di apprezzare essenzialmente “se la disposizione di cui all'art. 5 comma 2 lett. a)… precluda l’esecuzione nell'ordinamento italiano di una sentenza di condanna emessa a conclusione di un processo giudicato non equo dalla Corte di Giustizia a norma dell'art. 6 della Convenzione, ovvero se in assenza di un apposito rimedio previsto nell'ordinamento interno debba comunque prevalere il giudicato” (sent. 22.09/3.10.2005 n. 356161 cit.).
Trattasi dunque esattamente del medesimo quesito che si impone a questo punto nella vicenda del B., pur originata da un diverso vizio sostanziale del processo nazionale, comunque riconducibile al paradigma del giusto processo europeo ex art. 6 CEDU.
E' opinione di questo Collegio che il dilemma sottoposto dalla Corte di Cassazione, da essa lasciato allo stato aperto e privo di soluzione, debba trovare risposta in termini di necessità del rispetto immediato delle norme convenzionali, segnatamente dell'art. 5 CEDU, difformemente rispetto a quanto ritenuto nell'unico precedente di merito rintracciato (Corte d'Assise di UDINE, Pres. Feruglio, ord. 5.12.2005 n° 2/2005 R. Es. Assise, inedita, che ha respinto la richiesta di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena, emesso nei confronti del noto Paolo DORIGO, avanzata dallo stesso Pubblico Ministero proprio al fine di sollecitare la valutazione del Giudice dell'esecuzione sull'impatto specifico della sent. Corte Cass. n° 35616/2005, essendo il DORIGO detenuto dal 1996 in esecuzione di una condanna ad anni 13 mesi 6 di reclusione, pur a fronte della dichiarazione europea di iniquità del suo processo e dei già esposti richiami del Comitato dei Ministri all'Itala al fine di adottare adeguate misure riparatorie in forma specifica).
Questo Tribunale ritiene di giungere a conclusioni difformi, che non possono che essere implicite e necessarie rispetto a quanto argomentato in tema di preminenza del diritto internazionale rispetto alla norma interna e di soggezione ad esso (pure) del giudice nazionale, affermate in maniera sempre più chiara ed incisiva dalla Suprema Corte: se è vera l'impraticabilità normativa di qualsiasi rimedio specifico al fine di ottemperare ai solleciti delle pronunce di condanna, questo ancora non legittima e non autorizza il giudice nazionale a pretermettere qualsiasi rilievo al giudicato europeo, laddove e nei limiti in cui l'ordinamento interno offra strumenti appropriati e di competenza dell'Ufficio investito dell'incidente.
Il presupposto è la qui riconosciuta, immediata applicabilità della norma dell'art. 5 comma 2 lett. a) CEDU: rientrante, a parere del Collegio, nell'ambito di quelle disposizioni self executing, cioè di adozione automatica nell'ordinamento interno, in ragione della completezza del modello di obblighi e diritti imposti, che vanno ad inserirsi nel più ampio complesso normativo conseguente al loro inserimento, a differenza delle norme di fonte europea che, pur precettive, sono di contenuto ancora generico e tale da non delineare fattispecie sufficientemente puntualizzate, sì da dover essere attualizzate attraverso una specifica attività normativa dello Stato (cfr. Cass. SS.UU Penali 23.11.1988 cit.).
La disposizione europea che pone la libertà e la sicurezza tra i diritti fondamentali, condizionando la legittimità della loro privazione o limitazione alla detenzione regolare in seguito a condanna da parte di un tribunale competente, si impone, dunque, all'applicazione diretta del giudice italiano che sia chiamato a verificare e controllare la regolarità del titolo esecutivo, come avviene nell'ambito della presente procedura, aperta in base ad una sollecitazione di non eseguibilità della sentenza di condanna a carico del B., valutabile ai sensi dell'art. 670 c.p.p.
Il ruolo assegnato a questo Ufficio inerisce al controllo sulla legalità del titolo esecutivo formatosi nell' ordinamento interno e il compito devoluto è proprio quello di valutarne l'esistenza, la validità e l' eseguibilità, anche alla luce di sopravvenienze che incidano sulla sua essenza: é dunque superato quell’insormontabile ostacolo che si frappone alla rinnovazione del processo, rappresentato dall' assenza di qualsiasi strumento di fonte legislativa che ne detti la disciplina.
Trattasi, infatti, di un riconosciuto potere di valutazione del titolo, tradizionalmente alieno da implicazioni di merito, concorrente con quello esercitabile, in ipotesi, dal giudice della revisione ai sensi dell'art. 635 c.p.p., e non escluso da esso, ammesso (e non certo) de iure condendo che l'eventuale nonna di adattamento consista in un ampliamento dei casi di quel ricorso straordinario. E' certo invece che, allo stato, l'unico organo in grado di incidere sul titolo detentivo del B. sia proprio questo Giudice dell'esecuzione, onerato dell'essenziale dilemma se possa definirsi autorizzato da una norma di legge e conforme al principio dell'art. 13 Costo uno stato di detenzione che consegua ad un processo, sia pur in parte, non conforme ai principi di equità fissati dall'art. 6 CEDU: ed in definitiva, del quesito su quale debba essere oggi il cd. giusto processo regolato dall' art. 111 Cost., idoneo a fondare una giusta detenzione.
La necessità di ricorrere ad un'interpretazione adeguatrice delle norme in chiave di compatibilità costituzionale fa concludere al Tribunale che la disciplina dettata dall'art. 670 c.p.p. non osta ad una pronuncia interlocutoria che affermi l'inesistenza, nei termini che si preciseranno, del titolo fondante l'attuale detenzione di B.A., nonostante la constatazione della permanente assenza di uno strumento di rinnovazione del suo processo e, dunque, di una residua incompiutezza cognitiva.
Se è vero, infatti, che tale titolo resta conforme agli esiti del giudizio di cognizione nazionale e che nessuna sopravvenienza interna si registra, è altresì certo che la pronuncia della Corte Europea, pe sua essenza collocata inevitabilmente dopo la formazione del giudicato, ha sancito un obbligo di ripristino della legalità sostanziale in chiave europea, destinato a travolgere istituzionalmente la dichiarazione di irrevocabilità e che attende di essere realizzato. Senza spingersi nella dissertazione su premature categorie dogmatiche, ben può ravvisarsi in tale pronuncia se non un fatto impeditivo del giudicato italiano, regolarmente dichiarato, un fatto sopravvenuto ostativo all’eseguibilità della condanna, la cui valutazione incidentale è compito precipuo, appunto, di questa fase.
Attualmente, dunque, la detenzione di B. risulta sfornita di titolo e giustificazione nella parte in cui è stata accertata la violazione della norma convenzionale: fatto di cui questo Collegio deve dare atto, da un lato per la necessità di rispettare direttamente la norma, prevalente sulle norme ordinarie nazionali, dell’art. 5 comma 2 lett. a) della Convenzione, diversamente violata dal consapevole mantenimento di un titolo esecutivo indirettamente bocciato dal Giudice europeo; dall’altro lato per l’obbligo in capo al Giudice nazionale di conformarsi alle sentenza della Corte Europea, pur formalmente dirette a fini esecutivi agli Stai contraenti.
Né la pronuncia dalla limitatezza in termini temporali della entità della pena che sarà sospesa in esecuzione, atteso che analoghe conclusioni si sarebbero imposte nel caso in cui il giudicato nazionale fosse risultato inficiato da più radicali vizi, incidenti sulla struttura portante del processo e tali da imporne la radicale, piuttosto che parziale, rinnovazione. Non disconosce e non sottovaluta questo Tribunale la singolare situazione che si viene a creare rispetto all’istituto generale : laddove i compiti del giudice dell’esecuzione sono sempre strumentali ed intrinsecamente correlati a quelli del giudice di cognizione, investito necessariamente dopo l’accoglimento dell’incidente sulla (ir)regolarità del titolo esecutivo (art. 670 comma 2 c.p.p.).
Ne consegue l’anomala pendenza di un processo che vanamente attenderà di essere rinnovato, pur in parte, nell’inesistenza di un meccanismo legislativo che assicuri in concreto tale obbligo.
Ma al di là del fatto che, comunque, una decisione negativa di rigetto della sospensione dell'esecuzione porterebbe al medesimo epilogo dell'attesa del rifacimento del giudizio in ottemperanza agli obblighi internazionali, l'eccentrica conseguenza descritta di una decisione in sede esecutiva, incidente direttamente sul processo di cognizione ma destinata a rimanere indipendente da esso, è frutto della novità dell'istituto rispetto alle previsioni codicistiche, oltre ad essere auspicabilmente provvisoria e destinata a venir sanata da un futuro e prossimo intervento normativo, cui compete la chiusura della lacuna.
Soprattutto tale adottanda decisione è l'unica che salvaguarda immediatamente il condannato e consente di rispettare l'incondizionato diritto del B. ad una detenzione fondata su un titolo regolare in quanto emesso all'esito di un processo giusto, svolto nella cornice dei principi europei, del cui rispetto il Giudice nazionale già era onerato e che l'intervento sussidiario della Corte Europea altro non ha fatto che recuperare e reintrodurre correttamente nel giudizio finale.
Nell'alternativa che si propone tra il formale ossequio al giudicato nazionale, viziato dalla trasgressione sostanziale dell'art. 6 commi l e 3 d) CEDU e una pronuncia incidentale che, ferma la sentenza irrevocabile nazionale, ne dichiari la (parziale) non esecutività questo Tribunale non ha alcun dubbio nel ritenere di dover scegliere la seconda opzione: pena un consapevole consenso ad altra violazione della Convenzione in danno del B. (l'art. 5 comma 2 lett. a), che, oltre a non essere tollerabile in sé, riflettendosi sul bene primario per eccellenza dell'accusato, cioè il diritto alla sua libertà personale, comporterebbe una verosimile, nuova pronuncia di condanna da parte della Corte Europea per questo titolo, e, altrettanto ragionevolmente, una richiesta di risarcimento del danno da ingiusta detenzione ai sensi dell'art. 314 c.p.p.
Un precedente si rintraccia nella pronuncia Stoichkov c/ Bulgaria, dove la Corte ha affrontato proprio il problema della legittimità della privazione della libertà di un condannato nell'ottica dell'art. 5 CEDU, dopo il riconoscimento che il procedimento penale era stato viziato dalla violazione dei principi dell'art. 6 Convenzione: concludendo nel senso che, se giustificata ex art. 5 poteva ritenersi la restrizione in ottemperanza al giudicato nazionale, tale non era più dopo la condanna dello Stato e il diniego di riapertura del procedimento nazionale secondo le norme nel frattempo introdotte nel codice bulgaro (sent. 3.03.2005).
L'interpretazione di tali postulati comporta la conseguenza che le pronunce di condanna che dichiarano la violazione dei sommi principi dell'art. 6 CEDU, determinano in sé l'illegittimità del titolo esecutivo in parte qua, comportando comunque l'obbligazione di risultato di far celebrare il nuovo processo, in pendenza del quale non è consentita privazione o limitazione della libertà personale che trovi il suo fondamento nella pronuncia nazionale censurata (che ben potrebbe essere invece originata da fatti nuovi e successivi rispetto ad essa e pur se inseriti nell'ambito della medesima vicenda in fatto).
Trattasi, a ben vedere, delle medesime affermazioni rese nella più recente pronuncia della Cassazione, di efficacia espansiva e generale rispetto al caso concreto li esaminato inerente l'interpretazione dell'art. 175 c.p.p., e che qui si viene ad applicare sotto profili diversi rispetto a quelli sopra esaminati: laddove ha sostenuto che "la decisione di detta Corte (Europea) non potrà essere disattesa dal giudice chiamato a verificare l'esistenza del diritto al nuovo processo, con argomenti contrastanti con la pronuncia che ha accertato quella violazione, in altri termini non spetterà al giudice nazionale rimettere in discussione l'accertamento della violazione stessa" (punto 11 sentenza n° 32678/2006).
Ben può dunque dirsi così affermato il principio inerente la supremazia del giudicato europeo, vincolante il giudice nazionale in punto di diritto: da cui consegue la necessità di trarne le doverose conseguenze in termini di legittimità della detenzione rispetto ad un titolo restrittivo viziato nei suoi contenuti in quanto emesso all'esito di una procedura svolta in violazione dell'art. 6 CEDU.
Del tutto prevedibile, dunque, una nuova condanna dell'Italia in sede europea ai sensi dell'art. 5 comma 2 letto a CEDU, nella permanente assenza di uno strumento di ottemperanza alla pronuncia della Corte sul caso B. : condanna che comporterebbe conseguenze pecuniarie per l'Italia e che ragioni di economia, processuale e non, impongono di evitare con gli strumenti disponibili.
E' evidente che il riconoscimento dell'assenza parziale di causa legittima attuale della detenzione del B. nulla ha a che vedere con l'infondatezza. sostanziale delle accuse a suo carico per gli episodi in danno di Y, né con il giudizio prognostico formulabile sulle sorti delle relative accuse ove la procedura italiana fosse stata conforme a Convenzione, come peraltro sottolineato dalla stessa Corte (§§ 72 e 73).
Ma è altrettanto vero che una eventuale sentenza di condanna pronunciata all'esito del futuro giudizio, ove mai se ne disporrà la rinnovazione, fonderà un nuovo, autonomo titolo esecutivo, del tutto indipendente da quello attuale, ancorato ad una procedura di accertamento non equa e, dunque, in sé illegittimo e travolto dalla pronuncia della Corte di STRASBURGO.
Si dichiarerà, dunque, la non esecutività e non eseguibilità della sentenza di condanna n° 6662/99 Corte d'Appello di ROMA 16.11.1999, irr. il 5.12.2000, a carico di B.A. nella parte in cui se ne è affermata la responsabilità per i capi p, q ed r in danno di Y: con l'ulteriore necessità di determinare la pena in concreto in esecuzione per essi, nell'assenza di un aumento singolare da parte del Giudice di cognizione, nella misura, reputata equa ai sensi dell'art. 133 cod. peno alla luce della qualità delle imputazioni qui in rilievo e del numero di reati in continuazione (per i quali è stato fissato l'aumento complessivo di anni 1), di mesi 3 giorni 20 di reclusione per il capo q, di mesi 2 per il capo p, di giorni 10 per il capo r (= mesi 6 di reclusione), ridotti ai sensi dell'art. 442 c.p.p. alla pena finale di mesi 4 di reclusione (sulla necessità che il giudice dell'esecuzione individui partitamente i singoli aumenti di pena laddove il giudice di cognizione abbia determinato forfettariamente l'aumento complessivo per più reati, cfr. Cass. 20.01.2005 n° 4520; Cass. 16.02.2002 n° 7667).
P.Q.M.
Il Tribunale di ROMA, letti gli arti. 665 e segg. in relazione all'art. 670 c.p.p., dichiara la non esecutività del titolo costituito dalla sentenza n° 6662/99 Corte d'Appello di ROMA 16.11.1999, irr. il 5.12.2000, avverso B.A., limitatamente alla pena di mesi 4 di reclusione, di cui sospende l'esecuzione, fermo il resto.
Rigetta la richiesta di rinnovazione del processo.
Manda alla Cancelleria per la comunicazione al Pubblico Ministero, anche per le sue determinazioni sul titolo esecutivo, nonché per le notificazioni di rito al condannato e al suo difensore.
Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio del 25 settembre 2006.
IL GIUDICE ESTENSORE (dott.ssa Paola ROJA)
IL PRESIDENTE (dott.ssa Nunzia CAPPUCCIO)